L’episodio numero 35 del Pulp Podcast, dal titolo “Israele/Palestina: è veramente Pace?”, si è trasformato in un vero e proprio campo di battaglia verbale. Più che un confronto sul conflitto mediorientale, la puntata ha messo in scena uno scontro sulla possibilità stessa di discutere pubblicamente la questione palestinese e su chi abbia il diritto di rappresentarla. Fin dalle prime battute, infatti, l’atmosfera in studio si è fatta tesa. L’ospite Karem Rohana ha contestato apertamente il formato del dibattito, nato come un faccia a faccia con Francesco Giubilei. Secondo Karem, quel tipo di confronto non rispettava le condizioni iniziali: avrebbe dovuto esserci una rappresentanza più ampia della voce palestinese, con la presenza di “giovani palestinesi” e di esperte del tema. L’idea, ha spiegato, era evitare che una causa collettiva venisse ridotta a un unico volto, facilmente attaccabile e quindi screditabile.
“Dibattito” o “legittimazione”? Scontro Giubilei-Karem a Pulp Podcast
La tensione è esplosa quando Giubilei e Karem si sono confrontati. Il primo ha accusato l’ospite di voler trasformare il dibattito in una “pantomima” per paura del confronto, mentre Karem ha ribattuto che il problema non era la paura, ma la mancanza di rispetto per gli accordi presi. Da lì, il tono è rapidamente degenerato: Karem ha accusato Giubilei di essere “finanziato da una lobby israeliana, Elnet”, citando un suo viaggio in Israele; Giubilei ha smentito con forza, affermando di aver sostenuto le spese personalmente e minacciando querela per diffamazione.

Sullo sfondo, lo scontro fra due visioni inconciliabili di Hamas e del sionismo. Per Giubilei, Hamas resta “un gruppo terroristico” e non può essere ammesso a libere elezioni. Karem invece ha definito quella etichetta “coloniale”, sostenendo che Hamas è nato come movimento politico in risposta all’occupazione militare.
Il meta-tema: chi ha voce, e chi no
Una volta uscito Giubilei, la discussione si è trasformata in una riflessione più ampia: chi ha davvero il diritto di parlare della Palestina? Karem ha accusato i media occidentali di offrire solo spazi “condizionati” alla voce palestinese, cioè dibattiti in cui la rappresentanza è ridotta e il contraddittorio sbilanciato. Ha parlato di “sottorappresentazione totale”, aggiungendo che il genocidio a Gaza non sarebbe soltanto il risultato di politiche militari, ma di un sistema mediatico e culturale che ha normalizzato certe idee.
Da qui la sua posizione netta: alcune ideologie — come il fascismo, il nazismo o il sionismo — non dovrebbero avere spazio mediatico. Invitarle, ha detto, significa legittimarle. I conduttori del podcast, però, hanno ribattuto che l’esclusione è controproducente: “L’unico modo per smontare tesi false o pericolose è affrontarle apertamente”, hanno spiegato, citando l’esempio della loro puntata con il generale Vannacci.
Dalla tensione al dibattito politico: il commento sull’accordo di pace al Pulp Podcast
La seconda metà dell’episodio ha assunto toni più analitici. Con l’arrivo di Alessandro Sallusti, Lorenzo D’Agostino e Ambrogio Manenti, il focus si è spostato sull’accordo di pace e sul significato stesso della parola “pace”.

Per Sallusti e Giubilei, quella raggiunta è una pace “imposta”, ma pur sempre pace. Un compromesso realistico ottenuto grazie all’influenza degli Stati Uniti e in particolare all’azione di Donald Trump. Hamas, in questa prospettiva, resta un’organizzazione terroristica, e parlare di genocidio è “una frottola”, come ha detto Sallusti, ricordando che il genocidio implica la volontà di sterminare un popolo, cosa che, secondo lui, non accade.
Karem, D’Agostino e Manenti hanno invece descritto l’accordo come una tregua fragile, non una vera soluzione. Per loro, il merito non è dei governi ma delle piazze e delle mobilitazioni internazionali che hanno costretto Israele a trattare. Il conflitto, sostengono, ha i tratti evidenti di un genocidio: decine di migliaia di vittime civili, ospedali distrutti e un’occupazione militare che dura da 58 anni. “Hamas – ha detto Karem – è nato come reazione a tutto questo, non come aggressore”.
Il 7 ottobre e i dubbi sull’intelligence israeliana
Un altro punto caldo è stato l’attacco del 7 ottobre. Giubilei lo ha definito “una colossale sottovalutazione” da parte di Israele, che si è fidato troppo dei propri sistemi di sicurezza. Sallusti, pur respingendo le teorie complottiste, ha ammesso che “qualche dubbio è legittimo”: com’è possibile che l’intelligence più efficiente al mondo non si sia accorta di nulla?
Il risultato è stato un episodio teso, a tratti caotico, ma emblematico: uno spazio dove le parole “pace”, “terrorismo” e “sionismo” non indicano concetti condivisi, ma fronti di battaglia ideologica. E dove la domanda iniziale — “è veramente pace?” — rimane, alla fine, senza risposta.






