Secondo quanto stabilito all’articolo II della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio, si parla di genocidio in presenza di determinati atti commessi con l’intento specifico di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso
Il termine “genocidio” viene spesso utilizzato nel dibattito pubblico e nei media per descrivere eventi di violenza estrema, persecuzioni sistematiche o stermini di massa. Tuttavia, la sua applicazione giuridica richiede requisiti ben precisi. Parlare di genocidio, in senso tecnico e legale, implica molto più che fare riferimento a un atto di violenza o a una strage: occorre dimostrare la volontà specifica di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo umano definito da caratteristiche nazionali, etniche, razziali o religiose. In questo articolo analizzeremo cosa significa esattamente genocidio dal punto di vista giuridico, quali atti rientrano nella sua definizione, le tappe che hanno portato al suo riconoscimento come crimine internazionale e come questa definizione viene applicata a casi concreti del passato e del presente.
La definizione legale di genocidio
Il concetto di genocidio è stato definito con precisione nella Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio, approvata dalle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948. Secondo quanto stabilito all’articolo II della Convenzione, si parla di genocidio in presenza di determinati atti commessi con l’intento specifico di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Gli atti in questione includono:
- Uccidere i membri del gruppo;
- Causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo;
- Infliggere deliberatamente condizioni di vita tali da portare alla distruzione del gruppo;
- Imporre misure volte a impedire le nascite nel gruppo;
- Trasferire forzatamente i bambini del gruppo in un altro gruppo.
È importante sottolineare che il genocidio, per essere tale, deve essere caratterizzato da un dolus specialis, ovvero un intento specifico di distruzione. Non basta dunque che un gruppo venga colpito da atti violenti su larga scala: è necessario che ci sia una volontà deliberata di eliminarlo.
Raphael Lemkin e la nascita del termine “genocidio”
Il termine “genocidio” non esisteva fino alla metà del Novecento. Fu Raphael Lemkin, un avvocato polacco di origini ebraiche, a coniarlo nel 1944 nel suo libro Axis Rule in Occupied Europe. L’obiettivo di Lemkin era quello di dare un nome e una cornice giuridica alle sistematiche politiche di sterminio attuate dai nazisti, in particolare contro gli ebrei europei. Lemkin creò la parola unendo il prefisso geno- (dal greco, che significa “razza” o “tribù”) al suffisso -cidio (dal latino caedere, “uccidere”).
Lemkin definì il genocidio come “un piano coordinato di azioni diverse che mirano alla distruzione delle basi essenziali della vita di specifici gruppi di popolazione, con l’obiettivo di annientare i gruppi stessi”. Il suo lavoro fu determinante per l’approvazione della Convenzione del 1948 e per l’affermazione del genocidio come categoria giuridica autonoma all’interno del diritto internazionale.
L’affermazione del genocidio come crimine internazionale
Nonostante il termine “genocidio” sia stato usato già nel processo di Norimberga del 1945 per descrivere i crimini nazisti, esso non era ancora codificato come reato specifico. I principali imputati furono condannati per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Solo con l’adozione della Convenzione sul Genocidio il termine acquisì pieno valore legale.
La Convenzione stabilisce che il genocidio è un crimine internazionale, il che implica che ogni Stato ha l’obbligo di prevenirlo e punirlo, a prescindere dalla sua ratifica formale del trattato. La prevenzione del genocidio è quindi non solo un dovere morale, ma anche un obbligo giuridico per la comunità internazionale.
L’articolo III della Convenzione prevede che siano punibili non solo il genocidio in sé, ma anche:
- l’accordo per commettere genocidio;
- l’istigazione pubblica e diretta a commettere genocidio;
- il tentativo di genocidio;
- la partecipazione al genocidio.
Lo Statuto di Roma e la Corte Penale Internazionale
Con l’entrata in vigore dello Statuto di Roma nel 2002, è stata istituita la Corte Penale Internazionale (CPI), incaricata di giudicare i crimini internazionali più gravi: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e, più recentemente, il crimine di aggressione.
Lo Statuto di Roma, all’articolo 6, riprende la definizione di genocidio già contenuta nella Convenzione del 1948. Tuttavia, le parti firmatarie hanno dedicato particolare attenzione alla struttura del reato, distinguendo tra:
- Elemento sistematico, cioè l’intenzione di distruggere un gruppo;
- Atto individuale, ovvero le azioni specifiche compiute contro i membri del gruppo, mirate a colpire la sua esistenza fisica o culturale.
Il cosiddetto “genocidio culturale”, ovvero la distruzione dell’identità di un gruppo attraverso la cancellazione della sua lingua, religione, educazione o tradizioni, rimane tuttora un concetto controverso e non formalmente riconosciuto come genocidio a sé stante, sebbene venga dibattuto nella dottrina giuridica.
Il caso Akayesu: la prima condanna per genocidio
Uno dei casi più emblematici della giurisprudenza internazionale sul genocidio è quello di Jean-Paul Akayesu, ex sindaco della città di Taba in Ruanda, durante il genocidio del 1994. In un primo momento, Akayesu si oppose agli attacchi contro la minoranza Tutsi, ma dopo un incontro con rappresentanti del governo provvisorio cambiò radicalmente atteggiamento, arrivando a istigare e partecipare egli stesso alle violenze.
Nel 1995 fu arrestato e processato dal Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (TPIR). Gli furono contestati, tra gli altri, i reati di genocidio, istigazione e concorso nello stesso. Il 2 settembre 1998 fu condannato all’ergastolo per 9 dei 15 capi d’accusa.
Il processo Akayesu segnò una svolta non solo per essere la prima condanna formale per genocidio, ma anche per il riconoscimento dello stupro e della violenza sessuale come atti di genocidio, quando perpetrati con l’intento di distruggere un gruppo. Questo ampliamento dell’interpretazione ha avuto rilevanti conseguenze nel diritto penale internazionale.
Il caso Israele-Palestina: una questione aperta
Il lungo conflitto tra Israele e Palestina, le cui radici affondano nella fine del XIX secolo e nella spartizione territoriale del 1947 da parte delle Nazioni Unite, è spesso al centro di discussioni circa la possibile qualificazione delle violenze come genocidio. Alcuni, come l’attivista Miko Peled, sostengono che le azioni israeliane a Gaza dal 1948 in poi rientrino nella definizione di genocidio, in quanto comportano l’uccisione di membri del gruppo palestinese, gravi lesioni fisiche e psicologiche e condizioni di vita tali da compromettere la sopravvivenza del gruppo.
La situazione di circa 2,2 milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza, privi di accesso stabile a beni primari come acqua, cibo, elettricità e cure mediche, viene spesso citata a sostegno di questa tesi. Tuttavia, attribuire giuridicamente la qualificazione di genocidio richiede la prova dell’intento specifico di distruggere il gruppo palestinese in quanto tale, prova che risulta complessa da acquisire e da dimostrare in sede internazionale.
La complessità giuridica e politica del conflitto israelo-palestinese rende arduo, almeno allo stato attuale, un riconoscimento formale del genocidio da parte degli organismi giuridici internazionali. La questione resta tuttavia al centro di un acceso dibattito tra giuristi, attivisti e osservatori internazionali.