A quasi vent’anni dall’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto a Garlasco il 13 agosto 2007, resta ancora senza risposta una delle domande fondamentali di questo caso: perché è stata uccisa? Il movente, in ogni processo penale, è un tassello importante, spesso decisivo. Ma nel caso di Garlasco, anche dopo la condanna definitiva di Alberto Stasi, ex fidanzato della vittima, il movente resta un mistero.
Nel corso degli anni sono state formulate varie ipotesi, alcune più plausibili, altre speculative, ma nessuna ha mai trovato riscontri solidi o è stata accolta in modo unanime nelle aule di giustizia.
L’ipotesi del movente sentimentale
Una delle ipotesi più discusse fin dall’inizio è quella che riconduce il delitto a motivi di natura relazionale. Chiara e Alberto avevano una relazione apparentemente tranquilla, ma secondo gli inquirenti non mancavano elementi di freddezza e di crisi. La procura ipotizzò che tra i due potesse esserci stata una discussione sfociata in violenza, magari per gelosia o per una rottura imminente.
Questa ricostruzione, pur essendo intuitivamente comprensibile, non è mai stata suffragata da prove concrete. Nessuno tra amici e conoscenti parlò di litigi particolarmente gravi tra i due, né furono mai trovate lettere o messaggi che suggerissero tensioni esplosive.
Il presunto possesso di materiale pedopornografico: una pista caduta nel vuoto
Una delle piste più controverse esplorate durante le indagini sul delitto di Garlasco fu quella legata al presunto possesso, da parte di Alberto Stasi, di materiale pedopornografico. Si trattava di un elemento che, secondo alcuni, avrebbe potuto fornire un movente all’omicidio, ipotizzando che Chiara Poggi avesse scoperto quei file e minacciato di denunciarlo. Tuttavia, questa teoria ha perso ogni consistenza giudiziaria nel 2014, quando la Corte di Cassazione ha assolto definitivamente Stasi dall’accusa.
Nelle motivazioni della sentenza n. 10491 della Terza sezione penale, depositate il 5 marzo 2014 (relatore Vincenzo Pezzella), i giudici supremi hanno precisato che i frammenti di file ritenuti pedopornografici erano “incompleti e non coordinati tra loro”, e quindi non visionabili. Non solo: risultavano collocati in una parte del computer cui Stasi non aveva accesso diretto, anche alla luce dei software installati.
In sostanza, secondo la Cassazione, non vi era alcuna prova che Stasi avesse mai visualizzato o scaricato consapevolmente quei contenuti, né che fosse a conoscenza della loro presenza sul proprio dispositivo. Al contrario, il fatto che l’imputato detenesse migliaia di immagini e video pornografici leciti, organizzati e catalogati in modo meticoloso, sembrava semmai confermare che i frammenti illeciti fossero finiti sul computer in modo accidentale, forse tramite la navigazione o il download inconsapevole da siti ambigui.
La Suprema Corte ha inoltre sottolineato un principio giuridico importante: non può essere condannato per detenzione di materiale pedopornografico chi lo acquisisce o visualizza per errore, ad esempio cliccando su un link che sembrava riferirsi a contenuti leciti, o ricevendo file scambiati per semplice pornografia adulta.
Il verdetto ha così annullato la precedente sentenza della Corte d’Appello di Milano, che nel 2013 aveva comminato a Stasi una multa al posto di 30 giorni di reclusione inflitti in primo grado. Per gli ‘ermellini’, quella condanna era “viziata da errore di diritto”.
In definitiva, l’ipotesi di un movente legato a contenuti pedopornografici si è rivelata giuridicamente infondata e priva di riscontri oggettivi. Ciò nonostante, per anni ha alimentato il dibattito mediatico e insinuato sospetti che hanno complicato ulteriormente la comprensione di un caso già di per sé opaco.
La teoria difensiva
Una variazione sul tema precedente è quella che ipotizza un omicidio dettato dalla necessità di evitare uno scandalo. In questo scenario, l’assassinio sarebbe stato un atto deliberato per mettere a tacere una verità scomoda, non necessariamente legata ai file informatici, ma forse ad altri aspetti della vita di Stasi: abitudini private, relazioni, o segreti familiari.
Anche in questo caso, però, ci si muove nel campo delle ipotesi astratte. Nessun testimone, nessun documento, nessuna confessione ha mai indicato che Chiara fosse sul punto di rivelare qualcosa.
Ipotesi economiche: una pista mai realmente esplorata
In alcuni momenti si è affacciata anche l’idea di un movente economico, legato a questioni patrimoniali o a interessi nascosti. Ma Chiara non risultava coinvolta in controversie di natura finanziaria, né vi erano eredità in gioco o debiti che potessero giustificare una reazione così violenta. È una pista che non ha mai preso corpo, e che gli stessi inquirenti hanno rapidamente escluso.
La tesi del raptus
È stata anche sollevata l’ipotesi che Chiara Poggi possa essere stata vittima di un gesto improvviso, di un impulso violento scaturito da una discussione banale o da un momento di perdita di controllo. È la teoria del cosiddetto “delitto d’impeto”, che spesso viene invocata quando tutto il resto sembra mancare.
Ma questa spiegazione, per quanto semplice, lascia l’amaro in bocca. Non chiarisce perché sia avvenuto l’omicidio, né offre elementi per comprendere la psicologia dell’assassino.