Il Manchester City sarebbe legato, almeno indirettamente, ai massacri attualmente in corso in Sudan. Al centro della controversia vi è il proprietario del club inglese, Sheikh Mansour bin Zayed Al Nahyan, membro della famiglia reggente di Abu Dhabi e vicepresidente degli Emirati Arabi Uniti. Gli Emirati sono stati accusati di fornire supporto alle forze paramilitari delle Rsf, anche armandole, contribuendo concretamente alla guerra civile sudanese,
Le accuse rivolte agli Emirati Arabi Uniti
Un’inchiesta pubblicata dal quotidiano britannico The Guardian nel novembre 2025, insieme a un rapporto di Amnesty International dello stesso anno, accusa gli Emirati Arabi Uniti di aver fornito, direttamente o indirettamente, armi e supporto logistico alla RSF, in violazione dell’embargo ONU sulle forniture militari al Sudan.
Amnesty ha documentato sul campo la presenza di componenti per droni e munizioni di produzione cinese che sarebbero transitate attraverso gli Emirati. Anche la Brookings Institution e PBS NewsHour riportano che gli EAU sono considerati da analisti e governi una “potenza di influenza” nel conflitto, con legami alle rotte commerciali che alimenterebbero la milizia.
Abu Dhabi, tuttavia, respinge ogni accusa di coinvolgimento militare, sostenendo di essere impegnata esclusivamente in missioni umanitarie nel continente africano. Nel maggio 2025, il Sudan ha presentato un ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia, accusando gli Emirati di “complicità nel genocidio”. La Corte ha respinto il caso per motivi di giurisdizione, senza entrare nel merito, ma le prove depositate restano parte del dossier internazionale.
Sheikh Mansour: tra Manchester City e Sudan
Sheikh Mansour bin Zayed Al Nahyan è una delle figure più influenti del Golfo Persico. Vicepresidente degli Emirati, membro della famiglia reale di Abu Dhabi e, dal 2008, proprietario del Manchester City attraverso la Abu Dhabi United Group. Sotto la sua guida, il club è diventato un gigante del calcio mondiale: trofei, sponsor globali e un impero sportivo che si estende su cinque continenti grazie alla City Football Group.
Tuttavia, il modello che ha portato il City al vertice è visto da molti come una forma di soft power: una strategia per promuovere un’immagine moderna e progressista di Abu Dhabi, distogliendo l’attenzione dalle sue politiche autoritarie e dai conflitti in cui è coinvolta.
Come scrive The Guardian nell’articolo ‘Silence over Sudan: why do Manchester City’s owners get away with so much?’, il successo sportivo rischia di diventare “uno scudo morale dietro cui nascondere la realtà del potere”.
Come può il vicepresidente degli Emirati non sapere cosa sta facendo il suo Paese in Sudan?
Sportwashing: la nuova geopolitica del pallone
Il concetto di “sportwashing” — ovvero l’uso dello sport per ripulire l’immagine di governi o aziende accusati di violazioni dei diritti umani — non è nuovo. Ma il caso del Manchester City è, secondo molti esperti, l’esempio più emblematico: il club non è solo una squadra, ma rappresenta il volto internazionale di uno Stato.
Secondo la Darfur Union UK, che raccoglie la diaspora sudanese nel Regno Unito, “il successo del City è costruito sull’occultamento di verità scomode”. L’organizzazione chiede alla Premier League di introdurre criteri etici nei processi di fit and proper ownership, per impedire che governi coinvolti in conflitti o abusi dei diritti umani possano possedere club inglesi.
La situazione in Sudan
Dal 2023, il Paese è lacerato da un conflitto tra le forze armate regolari (SAF) e la milizia delle Rapid Support Forces (RSF), erede diretta delle Janjaweed, note per le atrocità commesse in Darfur vent’anni fa. Queste forze paramilitari erano particolarmente violente contro le persone di “etnia non-araba”, macchiandosi di numerosi massacri e atrocità spinte da motivazioni etniche.
Secondo quanto riportato da Amnesty International e Human Rights Watch, la RSF si sarebbe resa responsabile di esecuzioni sommarie, stupri sistematici e attacchi mirati contro gruppi etnici come i Masalit. Le Nazioni Unite parlano esplicitamente di crimini di guerra e denunciano un “genocidio in corso” nella regione del Darfur. Ad Al-Fashir, capoluogo del Nord Darfur, interi quartieri sono stati rasi al suolo, mentre le testimonianze dei civili raccontano di violenze diffuse e brutali.






