L’intelligenza artificiale (IA) sta rapidamente allargando la sua capacità di svolgere compiti prima riservati agli esseri umani, e con essa cresce il tema — ormai centrale nel dibattito pubblico — dell’impatto sull’occupazione. Uno studio recente del Massachusetts Institute of Technology (MIT) suggerisce che l’IA potrebbe già oggi svolgere attività corrispondenti al 12% della forza lavoro statunitense, pari a circa 151 milioni di lavoratori analizzati e a 1,2 trilioni di dollari in salari. Ma cosa significa concretamente questa stima, quali professioni sono più esposte e come interpretare i numeri senza cadere in facili allarmismi?
Metodo e dimensione della ricerca
Il team del MIT ha costruito la propria analisi su un indice chiamato “Iceberg Index”, pensato per misurare quanto le capacità tecniche dell’IA sovrappongano i compiti richiesti dai lavori reali. Per ottenere un quadro il più possibile dettagliato hanno esaminato 151 milioni di impieghi distribuiti su 923 professioni in 3.000 contee, tenendo conto di oltre 32.000 competenze specifiche. Il risultato non è una previsione automatica di licenziamenti, ma una misura di “esposizione tecnica”: cioè fino a che punto l’IA potrebbe già oggi svolgere attività tipiche di certe occupazioni. L’effetto reale sul posto di lavoro dipenderà poi dalle scelte delle aziende, dall’adattamento dei lavoratori e dalle politiche pubbliche.
Fin dove può arrivare l’IA?
Secondo lo studio, al momento l’adozione di strumenti di IA è principalmente concentrata in ambiti tecnologici che rappresentano circa il 2,2% del valore salariale complessivo del mercato del lavoro. Tuttavia le capacità dell’IA si estendono molto oltre il settore tech: molte attività cognitive e amministrative, che valgono quasi il 12% del mercato salariale, risultano oggi “tecnicamente esposte”.

In pratica, non è solo il lavoro manuale ripetitivo ad essere sotto osservazione: anche compiti di analisi, coordinamento e routine amministrativa possono essere automatizzati.
Le professioni più a rischio
Tra i gruppi più vulnerabili, il MIT segnala innanzitutto ruoli legati alla tecnologia stessa (sviluppatori, analisti, project manager), ma anche mansioni cognitive che ricadono in finanza, contabilità e servizi amministrativi. L’ambito dei servizi professionali nel suo complesso, inclusa l’amministrazione sanitaria, appare particolarmente esposto. Gli autori ricordano però che la ricerca ha considerato principalmente i compiti tecnici e cognitivi con tracciabilità nelle attuali implementazioni di IA; l’automazione fisica — robotica avanzata — diventerà sempre più rilevante man mano che la tecnologia progredirà.
Un confronto con altre analisi sull’IA
Altre valutazioni forniscono un quadro in parte sovrapponibile ma con sfumature diverse. Un’analisi di Microsoft, basata su conversazioni reali con il suo chatbot Copilot, ha assegnato a ogni professione un “punteggio di applicabilità IA”. Nella lista dei lavori più esposti Microsoft mette interpreti e traduttori, storici, assistenti di volo, venditori di servizi, scrittori, addetti al customer service, programmatori di macchine CNC, operatori telefonici e impiegati di banco in agenzie di viaggio. Dall’altra parte, alcune professioni risultano meno a rischio nel breve termine secondo la stessa analisi: per esempio infermieri addetti al prelievo (flebotomisti), assistenti di cura, operatori per la rimozione di materiali pericolosi, tecnici d’officina e chirurghi specializzati.
A ottobre, un rapporto del Senato statunitense — compilato con l’aiuto di ChatGPT e firmato da staff democratici — ha proposto stime ancora più allarmanti per alcuni settori: i lavoratori di fast food e al banco potrebbero vedere fino all’89% dei ruoli a rischio, gli addetti al servizio clienti l’83%, i magazzinieri l’81%, i venditori al dettaglio il 62% e così via. Anche professioni con più qualifiche, come contabili o sviluppatori software, figurano con percentuali significative di esposizione in quella rilevazione.
Perché le stime variano così tanto
Le differenze tra studi dipendono molto da cosa viene misurato: alcuni ricercatori quantificano la sola capacità tecnica dell’IA di eseguire certi compiti, altri stimano la probabilità che un intero ruolo venga sostituito o che la sua dimensione occupazionale venga ridotta. Inoltre conta il ritmo di adozione aziendale: un’attività “sostituibile” non verrà automaticamente rimossa se l’impresa decide invece di impiegarla per aumentare produttività, ridurre errori o reinventare servizi.
L’impatto dell’IA è già visibile
Nel corso del 2024-2025 molte grandi aziende hanno citato l’IA come motivo o giustificazione dietro ristrutturazioni e tagli del personale. Un esempio eclatante è Amazon, che ha giustificato l’eliminazione di migliaia di posti con la promessa di applicazioni “trasformative” dell’IA nei processi. Anche imprenditori e osservatori pubblici — come Andrew Yang, che parla regolarmente con Ceo di settore — segnalano che molte aziende stanno sfruttando l’IA per automatizzare lavori entry-level e procedure ripetitive.
Cosa cambia con l’IA?
Non tutti gli studi concordano su scenari esclusivamente negativi. Molti esperti sottolineano che l’IA può cambiare radicalmente le mansioni più che eliminarle del tutto: i compiti di routine possono essere delegati alle macchine mentre gli umani si concentrano su attività di supervisione, creatività, relazione e controllo etico. McKinsey suggerisce che, a seconda delle ipotesi, l’IA potrebbe coprire una fetta significativa delle attività svolte oggi (fino al 40% in alcune stime), ma l’effetto occupazionale netto varierà con la capacità dei lavoratori di riqualificarsi e con le politiche che favoriranno la transizione.
Cosa può fare la politica?
Gli autori dell’“Iceberg Index” interpretano il loro lavoro come uno strumento per decidere dove investire in formazione, quali competenze sviluppare e come bilanciare infrastrutture e capitale umano. In altre parole, misurare l’“esposizione” in anticipo permette agli Stati e alle imprese di prepararsi: pensare a programmi di riqualificazione mirati, incentivi per settori che creano occupazione a valore aggiunto e reti di sicurezza sociale per chi subirà ricollocazioni.

Le scelte normative e gli investimenti in educazione e training saranno determinanti per trasformare il rischio in opportunità.
Il ruolo delle imprese e delle istituzioni educative
Le aziende possono minimizzare gli impatti sociali adottando strategie di reimpiego del personale: formare dipendenti per ruoli di controllo, manutenzione dei sistemi IA o interfacce uomo-macchina. Università e centri di formazione devono ampliare corsi su competenze digitali, pensiero critico, gestione dati e soft skills difficili da replicare. Solo così si potrà diluire l’effetto sostitutivo con una crescita di nuove figure professionali.
Su quali competenze è meglio puntare?
Da più parti emerge l’indicazione di focalizzarsi su abilità non banali da automatizzare: capacità di gestione e supervisione, competenze creative e progettuali, competenze relazionali e sociali, pensiero etico e amministrativo complesso. Anche l’alfabetizzazione digitale avanzata e la capacità di lavorare con strumenti d’IA sono destinate a diventare requisiti chiave.
Prepararsi al cambiamento
L’IA non è una forza monolitica che semplicemente “ruba” posti di lavoro: è una tecnologia che ridefinisce ruoli e competenze. Le cifre, dal 12% di esposizione tecnica del MIT alle percentuali più ampie di altri studi, vanno interpretate alla luce delle dinamiche organizzative, delle politiche pubbliche e delle scelte individuali. Pianificare la formazione, ripensare i modelli occupazionali e mettere in campo reti di protezione sociale non sono solo scelte etiche, ma condizioni per trasformare una potenziale crisi in una transizione gestita e più equa. Chi saprà anticipare la trasformazione avrà più possibilità di trarne beneficio.
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