Di fronte a un conflitto che rischia di essere normalizzato dalla sovraesposizione mediatica, tre attiviste di Ultima Generazione, Alina, Beatrice e Serena, hanno deciso di “alzare l’asticella”. La loro promessa è netta: se la Freedom Flotilla, carica di aiuti umanitari, verrà bloccata prima di raggiungere Gaza, inizieranno uno sciopero della fame. Una scelta estrema, nata da un profondo senso di responsabilità e da una critica radicale all’inazione delle istituzioni, raccontata ai microfoni di Newzgen.
Una risposta all’impotenza e all’inazione istituzionale
La decisione, come spiega Alina, non è un gesto impulsivo, ma la conseguenza di un accumulo di frustrazione. “Quello che m’ha spinto è stato proprio il senso di impotenza e la poca fiducia che ho nelle nostre istituzioni“, afferma. Le attiviste denunciano la risposta “debole” e gli “stimoli negativi” ricevuti dalla politica italiana, citando le dichiarazioni del ministro Tajani (“vanno a loro rischio e pericolo“) e di Arianna Meloni, che ha accusato la Flotilla di “strumentalizzare la tragedia“. A questo si aggiunge la mancata adesione dell’Italia a una nota congiunta di 15 Paesi che metteva in guardia Israele da azioni contro la missione umanitaria.
Oltre le etichette: la richiesta di azioni concrete
La loro protesta non si limita a chiedere un passaggio sicuro per la Flotilla. Come sottolinea Beatrice, l’obiettivo è più ambizioso: esigere che il governo italiano riconosca formalmente il “genocidio in corso a Gaza” e adotti misure concrete di conseguenza. La critica è rivolta a una classe politica percepita come distante e non rappresentativa, indipendentemente dallo schieramento. Le attiviste contestano un dibattito pubblico che per mesi si è perso in questioni semantiche (“è genocidio o non è genocidio?“), distogliendo l’attenzione dalla sofferenza umana.
Essere d’esempio: il ruolo dell’educazione e della maternità
Le motivazioni delle tre donne affondano le radici nelle loro vite personali. Serena, di professione educatrice, vede nella sua azione un dovere morale per contrastare la “disillusione generalizzata“. Il suo gesto vuole essere un esempio concreto per dimostrare che i singoli individui possono ancora fare la differenza e per “rieducare le persone a tenere saldi i valori” dell’umanità e della collettività.
Allo stesso modo, Alina, madre di tre figli, vive questa battaglia come una responsabilità genitoriale. “Voglio trasmettere ai miei ragazzi l’idea che si possa ancora fare qualcosa, che abbiamo ancora una voce che, se unita ad altre, ha il potere di cambiare le cose“, spiega. La sua è una scelta consapevole per insegnare ai figli a non rimanere indifferenti di fronte alle ingiustizie.
Dall’ambiente ai diritti umani: un attivismo senza confini
Spesso associate alle lotte per il clima, le attiviste rivendicano la coerenza del loro impegno. Beatrice chiarisce che, sebbene i conflitti abbiano un impatto ambientale devastante, la motivazione principale è umana e viscerale: “Ho assistito praticamente giorno per giorno al massacro di persone e a un certo punto non ce la faccio più a tollerarlo“. La continua esposizione a immagini di violenza tramite i social media ha reso la tragedia di Gaza una realtà quotidiana e insopportabile.
Serena ribadisce questo concetto, affermando che l’attivismo non può essere settoriale. “Quando ci si attiva per il benessere di qualsiasi forma di vita […] non si possa più fare un ragionamento del tipo ‘mi occupo solo di una cosa e volto la testa dall’altra parte sul resto“, dichiara. La loro lotta si inserisce in un quadro più ampio di difesa dei diritti universali, un principio che, come ricordato citando l’attivista Soumaila Diawara, rende ogni cittadino del mondo coinvolto in battaglie come quella contro l’apartheid, ovunque essa si manifesti. La loro azione, che include anche il boicottaggio di supermercati legati a Israele, è un appello a non girarsi dall’altra parte.






