Cammini in un bosco d’autunno e l’odore del sottobosco riempie l’aria: muschio, foglie umide e, a pochi centimetri sotto i piedi, qualcosa che non si vede ma si sente. È il tartufo, il frutto sotterraneo di un fungo che vive in simbiosi con gli alberi e che comunica con l’ambiente attraverso un profumo tanto intenso da muovere animali e persone. La sua superficie è ruvida o liscia a seconda della specie, ma la parte che conta è all’interno: la polpa che custodisce le spore. Chi cerca o studia i tartufi lo sa: non si tratta solo di piacere gastronomico, ma di una relazione biologica che si svolge nel terreno, invisibile eppure determinante per la presenza di questi funghi in molte aree d’Italia.
Come sono fatti i tartufi e la loro simbiosi segreta
I tartufi europei appartengono prevalentemente al genere Tuber e sono classificati come funghi ipogei, cioè si sviluppano sotto la superficie del suolo. Non crescono in modo indipendente: le loro ife si intrecciano con le radici degli alberi formando una struttura funzionale chiamata micorriza. Da questo scambio nascono vantaggi reciproci: il fungo assicura alla pianta acqua e sali minerali, la pianta trasferisce carboidrati prodotti con la fotosintesi. È un rapporto di scambio che determina la presenza del tartufo in specifici habitat, spesso boschi di querce, pioppi, noccioli e faggi.
Ciò che raccogliamo è lo sporoforo, la parte fruttifera visibile dopo lo scavo. La sua struttura comprende il peridio, il rivestimento esterno, e la gleba, la polpa interna con le venature caratteristiche. La gleba cambia colore e consistenza con la maturazione: nei giovani esemplari è più chiara, poi scurisce man mano che si formano le spore. Le venature sterili e quelle fertili aiutano gli esperti a identificare specie e stato di sviluppo.
Un dettaglio che molti sottovalutano è che la presenza del tartufo dipende tanto dal suolo e dal clima quanto dalla salute degli alberi. Chi vive in città lo nota raramente, ma in molte zone rurali la gestione dei boschi influisce direttamente sulla produzione di tartufi, e la loro tutela diventa una questione pratica per chi li raccoglie e li coltiva.

Perché il tartufo ha quell’odore che alcuni chiamano “gas”
I tartufi non si affidano al vento per disperdere le spore: hanno sviluppato una strategia diversa e più diretta, basata sugli odori. Le molecole prodotte nel loro interno sono composti volatili che si diffondono nell’aria e che attirano animali terrestri — cinghiali, volpi, roditori — e insetti. Questi animali scavano per consumare il tartufo; le spore resistono al passaggio intestinale e vengono così trasportate e depositate altrove, completando il ciclo riproduttivo del fungo.
Tra i composti che più influenzano la percezione umana ci sono alcuni derivati dello zolfo e altre sostanze aromatiche. Nominalmente, il DMS (dimetilsolfuro) e il DMDS (dimetildisolfuro) compaiono spesso nelle analisi chimiche: sono responsabili di note pungenti che alcune persone associano a odori “di gas” o a sentori sulfurei. Altri volatili, come certe aldeidi, apportano sfumature più dolci o di noci, creando un profilo olfattivo complesso.
La percezione dell’odore resta soggettiva: in alcune cucine il tartufo è ambito proprio per quelle note forti, mentre per altri risulta sgradevole. Un fenomeno che in molti notano solo d’inverno è l’intensificazione degli aromi: temperature e umidità del suolo modulano la volatilità dei composti, e quindi la forza del profumo percepito all’esterno.
Tipi di tartufo in Italia e perché alcuni valgono di più
In Italia la distinzione più usata è tra tartufi “bianchi” e “neri”, basata principalmente sul colore del peridio e su alcune caratteristiche esterne. Questa suddivisione però non è tassonomica: dentro ogni gruppo convivono specie diverse con livelli di pregio molto variabili. Tra i bianchi, il Tuber magnatum è il più ricercato e trova i suoi ambienti ideali nel territorio intorno ad Alba e in altre zone del Nord Italia. La sua fragranza unica, insieme alla limitata disponibilità e alla specificità dell’habitat, ne determinano il prezzo elevato sul mercato.
C’è poi il “bianchetto”, un tartufo più diffuso e meno esigente dal punto di vista ambientale, che rende la raccolta e, in qualche caso, la coltivazione più accessibile. Tra i neri il Tuber melanosporum è considerato pregiato per aroma e intensità; lo si associa spesso alle regioni collinari del Centro-Sud. Lo scorzone, il Tuber aestivum, è più comune in molte aree italiane e europee: meno costoso ma molto impiegato in cucina per il suo profilo aromatico che ricorda il malto tostato.
Un aspetto che sfugge a chi vive in città è che la qualità commerciale del tartufo non dipende solo dall’aroma: conta la stagione, il terreno, la gestione del bosco e la tecnica di raccolta. Nelle campagne italiane la scena tipica è quella del cane da tartufo che scava attorno alla base di un albero: immagine che riassume un rapporto pratico tra ambiente, persone e mercato, e che spiega perché la conservazione degli habitat rimane centrale per mantenere questa risorsa.






