Non è una domanda che vorremmo farci. Eppure, nelle conversazioni quotidiane, sui social, persino nei bar, riaffiora sempre più spesso: quali sarebbero i luoghi più sicuri d’Italia in caso di guerra? Non si tratta di catastrofismo, ma dell’effetto di un clima che negli ultimi mesi è cambiato. In Europa si parla di nuove leve obbligatorie, in Germania e Francia si ipotizzano richiami, in Svizzera riemergono vecchi rifugi antiatomici.
Nessuno immagina uno scenario nucleare: sarebbe talmente autodistruttivo da annullare ogni strategia, senza contare la risposta immediata della NATO. Ma la guerra del XXI secolo è diversa. Missili a lunga gittata, droni, attacchi lampo, infrastrutture digitali sotto assedio: lo vediamo in Ucraina, lo vediamo a Gaza. La distanza conta sempre meno.
In questo contesto, un’analisi fredda e realistica porta a una domanda scomoda ma legittima: quali zone d’Italia sarebbero potenzialmente meno esposte? Non si tratta di dire dove “nascondersi”, ma di capire quali territori, per caratteristiche geografiche e strategiche, non rappresenterebbero un obiettivo primario in caso di crisi europea.
Le grandi città non tra i luoghi più sicuri d’Italia in caso di guerra
L’Italia non è tra gli Stati più esposti dell’Europa orientale, ma il suo territorio ospita diversi elementi strategici. I potenziali obiettivi seguirebbero logiche note: centri politico-amministrativi, infrastrutture critiche, nodi logistici, basi militari, porti e poli industriali collegati alla difesa.

In questo senso, le città più esposte sarebbero le più ovvie: Roma, sede delle istituzioni e simbolo internazionale. Milano, capitale economica e finanziaria. Napoli, grande nodo portuale e militare. Torino, Genova, Venezia, importanti per industria, logistica e porti. Zone con basi NATO, aeroporti militari, centri radar, snodi energetici. Non perché l’Italia sarebbe al centro di un conflitto, ma perché in uno scenario di massima tensione queste aree avrebbero un valore strategico immediato.
L’Appennino interno: la dorsale “dimenticata” e tra le più sicure
Quando analisti geopolitici vengono interpellati informalmente, citano quasi sempre la stessa risposta: l’Appennino. Non le zone turistiche o i valichi principali, ma le aree più interne, quelle che vivono in un tempo loro.
Parliamo dell’Appennino tosco-emiliano, di alcune valli dell’Umbria remota, dell’entroterra di Marche e Abruzzo lontano dalla costa. Sono territori caratterizzati da: densità abitativa molto bassa, vie d’accesso tortuose, quasi nessuna infrastruttura strategica, assenza di poli energetici, basi, porti o industrie critiche.
In un mondo dominato dalla rapidità dei droni e da attacchi mirati, conta soprattutto una cosa: non essere un target interessante.
La montagna non è una protezione assoluta, ma è periferica rispetto ai grandi obiettivi. E in contesti di crisi, la perifericità è quasi sempre sinonimo di sicurezza relativa.
C’è anche un altro elemento: vivere circondati da boschi e silenzi dà un senso di radicamento che psicologicamente aiuta. Nei momenti di incertezza, la geografia interiore conta quanto quella fisica.
Le isole minori: lontane e poco appetibili
Un’altra categoria di territori sorprendentemente sicuri sono le isole minori. Non la Sicilia e la Sardegna – che ospitano basi militari importanti – ma gli arcipelaghi più distanti e poco popolati: Favignana, Marettimo, Ponza, Ventotene, alcune zone delle Eolie, parti della Maddalena.
Queste isole non possiedono infrastrutture strategiche di alto valore: nessun grande porto commerciale, nessun impianto industriale critico, nessuna sede politico-amministrativa.
Sono lontane, difficilmente raggiungibili, scarsamente popolate. Elementi che, dal punto di vista militare, equivalgono a un vantaggio: non offrono alcun interesse operativo.
L’unico limite sarebbe la gestione degli approvvigionamenti, ma se si parla esclusivamente di esposizione al rischio di attacco, le isole minori restano tra i luoghi più sicuri d’Italia.
Il Centro-Sud rurale: silenzio, distanza e nessuna infrastruttura critica
Ci sono poi territori che raramente entrano nel dibattito pubblico, ma che hanno caratteristiche perfette per rimanere fuori dal radar strategico: l’entroterra della Basilicata, alcune aree della Calabria ionica remota, parti del Molise, la Maremma interna.
Zone agricole, isolate, senza infrastrutture di rilievo, lontane da: ferrovie veloci, oleodotti, corridoi logistici, porti e industrie chiave.
Luoghi dove “non succede niente”, e proprio per questo non interessano a nessuno in uno scenario di conflitto.
Le Alpi: protezione naturale sì, ma non ovunque
Molti pensano che rifugiarsi sulle Alpi sia la soluzione ideale se l’Italia entrasse in guerra. In parte è vero: alcuni paesi laterali e remoti, tra pietra e legno, sono effettivamente poco esposti.
Ma c’è un problema: le Alpi sono anche un grande corridoio europeo.
Sono ricche di tunnel, trafori, ferrovie, snodi logistici e infrastrutture strategiche. Inoltre, alcune installazioni NATO si trovano proprio nell’arco settentrionale. La protezione naturale può trasformarsi in vulnerabilità indiretta.
La regola è una sola: le aree alpine più sicure sono quelle davvero laterali, fuori dai collegamenti fondamentali.
I luoghi più sicuri d’Italia in caso di guerra? La vera domanda da porsi
Se osserviamo la mappa con realismo, i luoghi italiani potenzialmente meno esposti a un conflitto moderno sono: le aree interne dell’Appennino; le isole minori senza infrastrutture strategiche; le zone rurali del Centro-Sud lontane da porti, ferrovie e poli industriali; alcune aree alpine secondarie.
Non sono luoghi “blindati”: semplicemente, non interessano dal punto di vista militare. E in tempo di guerra, a volte, la vera sicurezza nasce proprio dall’essere dimenticati.
Forse, però, la domanda più importante non è dove rifugiarsi. È perché siamo arrivati a pensarci, e quando torneremo a preoccuparci del clima, dell’acqua, del futuro – i veri rischi che nessun bunker può fermare.






