Un vassoio di taralli poggiato su una soglia in pietra, l’aria che sa di legno bruciato e di erbe: è un’immagine concreta che restituisce la geografia di un prodotto. A Sant’Agata de’ Goti, nel cuore del Sannio, i piccoli anelli intrecciati noti come ‘nfrennule emergono come espressione di una cultura alimentare radicata. Non sono solo un prodotto da forno: sono un punto di contatto fra territorio, tecniche artigianali e pratiche conviviali che resistono nelle panetterie e nelle case del borgo.
Origine, nome e radici storiche
La forma intrecciata delle ‘nfrennule richiama subito un paragone pratico: il termine sembra collegarsi al latino frenulum, parola che nel passato indicava una piccola briglia o legatura. Questa associazione spiega perché il loro aspetto a “otto” sia considerato distintivo e facilmente riconoscibile. Secondo studi di tradizione orale e riferimenti storici locali, le modalità di consumo e i contesti in cui venivano offerti rimandano al periodo medievale, quando i banchetti e le relazioni feudali passavano anche attraverso il cibo condiviso.
In queste pratiche sociali, la condivisione di pane e taralli accompagnata dal vino aveva valore simbolico: era un gesto che facilitava accordi e riconciliazioni. Per questo motivo si suggerisce che l’espressione popolare “finire a tarallucci e vino” derivi da abitudini concrete di chiude trattative conviviali. È plausibile che i contatti con popolazioni nordiche, come i Normanni che hanno lasciato tracce nel territorio campano, abbiano influenzato ricette e gesti correlati al consumo del pane.

Un dettaglio che molti sottovalutano è la persistenza di questi nomi e forme nei repertori domestici: non sempre sono documentati in fonti scritte, ma emergono nelle pratiche quotidiane dei fornai e nelle memorie familiari. Questo contribuisce a mantenere viva una linea di continuità fra produzione locale e memoria collettiva.
Ingredienti, metodo e significato nella vita locale
Le ‘nfrennule si distinguono per ingredienti semplici ma significativi: farina, acqua, vino bianco secco, olio extravergine d’oliva, semi di finocchietto e un poco di lievito. L’uso del vino bianco — spesso un vino prodotto nella stessa area, come la Falanghina — è un tratto che connette il prodotto ai vigneti locali e alla tradizione vitivinicola. Il motivo per cui si impiega il vino è duplice: da un lato dà aroma e una lieve sapidità, dall’altro rappresenta un legame materiale con il paesaggio agricolo.
La tecnica è essenziale e realistica: si scioglie il lievito in acqua tiepida, si impasta con farina e vino, quindi si incorpora l’olio e i semi. L’impasto va lavorato fino a ottenere una superficie omogenea e lucida; dopo una breve lievitazione si porzionano i pezzi, si allungano in bastoncini e si modellano nella tipica sagoma a otto. La cottura avviene in forno ben caldo fino a una doratura uniforme che mette in evidenza la fragranza e la croccantezza, senza trasformare il prodotto in qualcosa di eccessivamente duro.
Un aspetto che sfugge a chi vive in città è la centralità del fornaio come nodo sociale: nelle piccole comunità le panetterie sono luoghi dove si scambiano notizie e si conservano ricette. Le ‘nfrennule, con il loro profumo di finocchietto e la lucentezza data dall’olio, restano un segnale sensoriale della convivialità locale, trovando spazio sia nelle tavole domestiche sia nelle Vetrine dei forni durante le feste e le ricorrenze. Chi assaggia ne nota subito la leggerezza e il carattere rustico, elementi che spiegano perché il prodotto continui a essere richiesto nel corso dell’anno.






