Tra le strade ripide che salgono verso le montagne del centro Sardegna, il profumo caldo di su frigadori continua a raccontare un mondo che resiste e si rinnova. In mezzo alle rocce della Barbagia di Seulo, nel piccolo paese di Esterzili, questo pane di recupero è diventato un rito che unisce gesti antichi e sapori robusti, nato per non sprecare nulla e rimasto nel tempo come una delle espressioni più sincere della cucina contadina sarda.
Un pane di recupero che diventa identità e racconta l’ingegno delle donne dell’entroterra
Arrivare a Esterzili, cinquecento abitanti sulle pendici del monte Santa Vittoria, significa entrare in una Sardegna che vive di silenzi, allevamento e sguardi lunghi sulla vallata. Qui la cultura agropastorale non è un ricordo, è un ritmo che scandisce ancora le giornate e che ritorna nella cucina locale dove ogni gesto nasce dalla necessità e diventa sapore. È in questo contesto che prende forma su frigadori, una focaccia rustica preparata con ciò che rimaneva dell’impasto del pane, quando il grande lavoro della panificazione era già concluso e nella “scivedda”, il tradizionale contenitore di terracotta, restava sempre una piccola quantità di impasto attaccato ai bordi.
Gli ingredienti raccontano esattamente quella stessa logica di economia domestica: semola di grano duro, lievito madre, cipolla fritta, ciccioli di maiale e formaggio di capra o pecora, un insieme semplice e potente che parla dei pastori, della quotidianità e di un territorio che da sempre trae forza dalla sua essenzialità. Le donne, dopo aver staccato i resti dell’impasto, aggiungevano gli ingredienti disponibili in quel momento, li mescolavano velocemente e formavano una piccola pagnotta rotonda che veniva infornata ancora calda. Il risultato era un pane corposo, aromatico, che profumava di cipolla e di campagna e che rappresentava un modo per non buttare via niente, per trasformare lo scarto in una risorsa.
Oggi la ricetta continua a vivere grazie a cuoche e ristoratrici come Maria Carta, titolare del ristorante Is Femminas a Cagliari e legata profondamente ai paesi dell’entroterra. Racconta che per lei su frigadori è un pezzo di casa, un pane che “nasce due volte” e che funziona anche come memoria viva delle donne che lo preparavano. Nelle sue cucine lo cuoce al forno, ma per chi vuole una crosta più intensa lo ripassa in olio d’oliva, ottenendo un contrasto morbido all’interno e croccante all’esterno che restituisce tutta la forza della tradizione. Non è una ricetta reinventata, è un rito ridato alla modernità con rispetto, perché, come dice Maria, “questi pani raccontano chi siamo stati e come abbiamo imparato a vivere con poco”.
Nel paese fino a pochi anni fa si celebrava anche la “Sagra de Su Frigadori e de Is Cocoèddas”, un appuntamento che ricordava la cucina che non sprecava mai, quella fatta di piccoli miracoli domestici dove un impasto avanzato diventava un piatto unico. Le cocoèddas, frittelle ripiene di patate e formaggio in salamoia, completavano il quadro di una tradizione povera ma ricchissima di creatività. Così su frigadori non è solo un cibo, è il segno di un modo di pensare la vita in cui niente si butta e tutto trova una forma nuova.

Dove il pane si moltiplica: il ruolo del recupero nella cultura gastronomica sarda
In Sardegna il pane non è un prodotto, è un linguaggio. Esistono centinaia di pani diversi che variano da valle a valle, da una festa all’altra, da una stagione alla successiva. Ogni territorio ha sviluppato una sua forma di utilizzo degli avanzi, perché in una terra pastorale il pane non poteva essere sprecato e diventava spesso la base per piatti caldi, rustici, intelligenti. È così che nascono preparazioni come la suppa cuata in Gallura, il pane frattau in Barbagia o su mazzamurru nel Cagliaritano: ricette nate dalla povertà, ma oggi considerate esempi di cucina sostenibile e attuale.
In questo mosaico, su frigadori si distingue per la sua essenzialità, per quel gesto di recupero trasformato in identità gastronomica. La sua forza è proprio nella semplicità: un impasto rimesso in forma, arricchito con ciò che c’era in dispensa e capace di restituire un sapore profondo che ricorda la legna dei forni antichi e le mani che lavoravano la semola senza pesare nulla. Questo pane racconta la geografia del tempo, un sapere che non appartiene solo al cibo ma alla vita di un intero territorio.
Maria Carta spiega che modernizzare la ricetta significa rispettarne l’anima, non snaturarla. Per lei su frigadori è un omaggio alle donne che, da un impasto unico, ricavavano più pietanze per variare la tavola e garantire cibo anche nei giorni semplici. È un gesto che oggi torna a essere un modello di equilibrio, sostenibilità e gusto, soprattutto in un momento storico in cui la cucina di recupero è tornata centrale nelle abitudini domestiche.
Da paese a paese cambiano gli ingredienti, cambiano le mani, cambiano gli accenti, ma il senso resta lo stesso: trasformare l’essenziale in memoria condivisa. In questa stratificazione di identità e di interpretazioni, su frigadori è diventato quasi un piccolo simbolo culturale, un pane che unisce la quotidianità del passato e la sensibilità contemporanea verso il recupero. Un cibo che nasce due volte, come se la tradizione trovasse sempre un modo per tornare, per parlare ancora, per ricordarci che il sapore più autentico nasce spesso dalle cose più semplici.






