Le ultime settimane hanno portato una notizia che sembra uscita da una storia di fantascienza, ma che in realtà nasce dal lavoro di ricercatori sparsi tra oceani e laboratori di microbiologia avanzata: diversi gruppi di batteri stanno evolvendo due capacità opposte e complementari, quella di degradare la plastica dispersa nelle acque e quella di produrre i mattoni chimici delle plastiche future in modo sostenibile. È una doppia rivelazione che tocca due problemi globali — l’inquinamento marino e la produzione industriale di polimeri — mostrando come la natura, quando viene spinta ai limiti, possa reagire con strategie sorprendenti. Le implicazioni toccano non solo l’ecologia marina ma anche l’economia energetica e la biochimica del pianeta, suggerendo che l’interazione tra microbi e plastica potrebbe cambiare più rapidamente di quanto immaginiamo.
Come i microbi del mare stanno imparando a degradare la plastica e cosa rivela il motivo M5
Il primo studio arriva dalle acque degli oceani e dalle profondità dove raramente si immagina di trovare una risposta biologica all’inquinamento moderno. Un gruppo della King Abdullah University ha analizzato oltre quattrocento campioni, scoprendo che quasi l’ottanta per cento delle aree studiate ospitava batteri capaci di degradare PET, la plastica delle bottiglie e di molti tessuti sintetici. La chiave di questo comportamento inaspettato è un dettaglio molecolare chiamato motivo M5, una sorta di impronta biochimica che permette di distinguere gli enzimi realmente attivi da quelli che, pur simili nella struttura, non riescono a scindere il materiale plastico. Gli scienziati hanno dimostrato che dove compare la firma completa del M5, la degradazione del PET diventa concreta e misurabile, con batteri che sembrano aver trasformato la plastica in una fonte energetica alternativa in ambienti poveri di carbonio.
È un adattamento che appare quasi istintivo, come se l’oceano avesse iniziato a selezionare microbi capaci di utilizzare la plastica come risorsa invece che subirla come contaminante. Gli esperimenti in laboratorio hanno confermato questo sospetto: i ceppi marini con il motivo M5 attivo hanno degradato campioni di PET molto più rapidamente rispetto agli enzimi di riferimento. Le mappe genetiche mostrano inoltre come l’attività sia distribuita ormai in tutto il mondo, dalle superfici dei vortici di rifiuti fino a oltre duemila metri di profondità. Questa ubiquità suggerisce che l’evoluzione di tali enzimi non sia un episodio isolato, ma una risposta globale all’enorme presenza di plastica introdotta dall’uomo negli ultimi decenni. Non si tratta di una soluzione miracolosa, perché il tasso di degradazione naturale resta lento, ma rappresenta una base scientifica fondamentale per progettare enzimi ingegnerizzati o processi industriali in grado di accelerare cicli di riciclo oggi ancora troppo inefficienti.

L’enzima antico che produce etilene pulito e perché potrebbe rivoluzionare la plastica del futuro
Parallelamente a quanto accade negli oceani, un altro gruppo di ricerca — questa volta al Max Planck Institute — ha individuato un enzima antico, la metiltio–alcano reduttasi (MAR), capace di produrre etilene senza emissioni di anidride carbonica. L’etilene è uno dei precursori più utilizzati per creare diverse plastiche moderne, ed è normalmente ottenuto attraverso processi ad alta intensità energetica basati su combustibili fossili. MAR, al contrario, lavora in condizioni prive di ossigeno e trasforma composti organici dello zolfo in idrocarburi come etilene, etano e perfino metano. È una reazione che, se automatizzata o portata su scala industriale, potrebbe ridurre drasticamente l’impatto ambientale dell’intera filiera della plastica.
Ciò che ha sorpreso gli scienziati è anche la parentela strutturale dell’enzima con le nitrogenasi, molecole utilizzate da miliardi di anni per fissare l’azoto atmosferico. Questo legame suggerisce che forme primitive di vita sulla Terra potessero già utilizzare complessi gruppi ferro–zolfo per manipolare molecole organiche in modi che solo oggi iniziamo a capire. In altre parole, MAR non è solo un possibile strumento per creare plastica sostenibile: è anche una finestra sulla biochimica antica del pianeta. È affascinante che la risposta al problema moderno della plastica arrivi da un meccanismo che affonda le radici nella biologia più primitiva.
Se i sistemi basati su MAR venissero ottimizzati, si potrebbe immaginare un ciclo completamente nuovo: batteri che degradano plastica in mare e batteri che producono materiali plastici rinnovabili a basse emissioni. È uno scenario che oggi appare ancora lontano, ma che apre possibilità molto reali per l’industria. I ricercatori avvertono comunque che l’impatto degli enzimi naturali non basta a risolvere l’emergenza attuale, perché i tempi biologici non sono comparabili con i volumi di plastica dispersi ogni anno. Ma la comprensione dei meccanismi molecolari e delle strutture coinvolte offre strumenti preziosi per progettare tecnologie di riciclo o di produzione che prendano ispirazione proprio da questi microbi. L’idea che il futuro della plastica possa passare dalla biologia, e non dalla chimica fossile, è una delle direzioni più promettenti nella transizione verso materiali più puliti.






