Un impiegato che esce dall’ufficio con una cartella piena di documenti, un file segreto che sparisce da un server o una start‑up che perde il vantaggio competitivo: sono immagini che tornano spesso nei colloqui tra responsabili HR e avvocati del lavoro. Dietro a questi casi c’è quasi sempre una questione semplice ma cruciale: come proteggere ciò che un’azienda considera strategico senza imporre vincoli ingiustificati ai dipendenti? La risposta passa spesso per il patto di riservatezza, uno strumento contrattuale che delimita cosa resta privato e per quanto tempo. Un dettaglio che molti sottovalutano è che non basta una firma frettolosa: conta la chiarezza delle parole e la concretezza delle definizioni. Chi lavora in aziende con attività di ricerca o con portafogli clienti sensibili lo nota ogni giorno; per chi opera in ruoli amministrativi o commerciali il tema emerge nei momenti di cambiamento professionale. Questo articolo spiega quando è opportuno ricorrere a un accordo di riservatezza, quali clausole non dovrebbero mancare e quali accorgimenti possono evitare contenziosi inutili.
Quando serve e come si costruisce
Il patto di riservatezza non è solo per le aziende hi‑tech: serve ogni volta che un datore vuole tutelare informazioni che, una volta diffuse, potrebbero danneggiare il suo business. Parliamo di know‑how, dati commerciali, elenchi clienti, procedure operative e progetti in fase di sviluppo. In molti casi la clausola è incorporata nel contratto di lavoro, ma può anche essere un accordo separato sottoscritto all’ingresso o durante un incarico specifico. Uno degli elementi più utili è la descrizione precisa del perimetro: indicare esempi concreti riduce i margini di interpretazione e i potenziali litigi. Un aspetto che sfugge a chi non si occupa di contratti è la distinzione tra informazioni «riservate» e informazioni «di pubblico dominio»: la seconda non può essere oggetto del patto. La durata dell’obbligo è un altro nodo pratico: può estendersi oltre il rapporto di lavoro, ma deve essere proporzionata rispetto alla natura delle informazioni. Infine, conviene specificare le modalità consentite di utilizzo e conservazione, così come le misure organizzative richieste (accessi limitati, password, dispositivi aziendali). Un dettaglio operativo che molti sottovalutano è prevedere procedure di riconsegna del materiale al termine del rapporto, riducendo il rischio di dispersione involontaria delle informazioni.

Fondamento giuridico e la clausola penale
Il patto trova il suo fondamento nell’autonomia negoziale delle parti, sancita dall’articolo 1322 del Codice civile: datore e lavoratore possono definire regole comuni purché rispettino la legge e i principi di correttezza. Al centro restano gli obblighi generali del lavoratore, come la lealtà e la diligenza, che il patto non inventa ma specifica. Un elemento molto usato per rafforzare la tutela è la clausola penale, prevista con riferimento all’articolo 1382 c.c.: le parti stabiliscono in anticipo una somma dovuta in caso di inadempimento. Nella pratica ciò permette al datore di richiedere il pagamento senza dover provare nei dettagli ogni singolo danno; tuttavia i giudici possono ridurre la penale se la ritengono manifestamente sproporzionata rispetto al danno reale. È importante ricordare che non tutto è lecito: clausole che limitano diritti fondamentali o la libertà di lavoro possono essere impugnate. Un fenomeno che in molti notano è l’equilibrio che i tribunali cercano tra tutela dell’impresa e garanzie per il lavoratore, soprattutto quando l’obbligo perdura a lungo nel tempo. Per questo, una penale calibrata e una definizione puntuale delle informazioni protette rendono l’accordo più solido ed efficace.
Cosa evitare e come tutelarsi
Sia il datore che il lavoratore hanno interesse a un patto chiaro e proporzionato: il primo per proteggere il patrimonio informativo, il secondo per non restare vincolato senza giustificazione. Per l’azienda conviene evitare formule generiche come «tutte le informazioni aziendali»: è meglio elencare categorie concrete e prevedere eccezioni per dati già noti o acquisiti indipendentemente. Altri errori frequenti sono durate indefinite o penali eccessive che possono essere ridotte dal giudice. Dal lato del lavoratore, utile chiedere limiti temporali motivati e specifiche sulle modalità di diffusione, oltre a verbalizzare eventuali restrizioni geografiche o funzionali. Un piccolo consiglio pratico che professionisti HR condividono: inserire procedure di uscita e riconsegna dei materiali nel contratto riduce l’incertezza. Il principio della buona fede resta cruciale: la corte valuta non solo la clausola, ma anche i comportamenti di chi la applica. Per questo, la trasparenza nella fase di negoziazione e la formazione sul trattamento dei dati diventano strumenti di prevenzione efficaci. Alla fine, la scelta migliore per entrambe le parti è un accordo dettagliato e bilanciato: protegge il patrimonio informativo senza mortificare la libertà professionale. Un’immagine concreta per chiudere: un’azienda che fa controlli periodici sui dispositivi aziendali e un ex dipendente che restituisce regolarmente il materiale sono segnali che spesso anticipano contenziosi evitati.






