Negli ultimi mesi una nuova frase ha iniziato a spuntare nei corridoi delle scuole italiane, nei campi sportivi e persino nelle chat dei più giovani: “six-seven”, pronunciato in modo cantilenato, quasi sempre con lo stesso tono, come un richiamo inspiegabile che per gli adulti non ha alcun senso. La parola è nata negli Stati Uniti, si è diffusa in modo virale tra preadolescenti e adolescenti e ora sta ripetendo lo stesso percorso anche in Italia. Professoresse, genitori e allenatori si chiedono cosa significhi, mentre i ragazzi continuano a usarla per scherzare, per salutarsi, per disturbare una lezione o semplicemente per fare gruppo. Dietro questo tormentone non c’è un messaggio segreto, ma un gioco sociale che si alimenta da solo e che funziona proprio perché gli adulti non riescono a interpretarlo.
Da dove arriva “six-seven” e perché i ragazzi lo ripetono anche senza sapere cosa significa davvero
Per capire il fenomeno bisogna guardare agli Stati Uniti, dove la frase “six-seven” è ormai parte del linguaggio quotidiano di milioni di studenti. L’origine viene ricostruita da vari siti come KnowYourMeme e dalle analisi dei media americani: tutto inizia nel dicembre 2024, quando il rapper Skrilla pubblica su TikTok e sulle piattaforme social una canzone, “Doot doot”, che contiene un punto preciso in cui pronuncia i numeri sei e sette con un tono trascinato, quasi musicale. Il brano diventa un sottofondo molto usato nei video dedicati al basket, e qui la frase inizia a trasformarsi. Negli Stati Uniti un’altezza di “6’7’’” equivale a circa due metri: un riferimento che molti creator cominciano a usare con ironia. Il giocatore universitario Taylen Kinney prende l’abitudine di usare quei numeri in interviste, allenamenti e clip sui social, facendo anche un gesto particolare con le mani, una sorta di bilancia che oscilla leggermente come per pesare due opzioni. Questo gesto viene copiato velocemente da altri giovani sportivi, e i video fanno il giro delle piattaforme digitali.
A rendere virale il tormentone è un video in cui un ragazzino, biondo e visibilmente emozionato, urla “six-seven” verso una telecamera a bordo campo. La clip circola ovunque, entra su TikTok, supera confini e contesti, viene replicata, remixata, imitata. A quel punto la frase perde qualsiasi legame con il basket e con l’altezza in piedi: diventa un’esclamazione priva di senso, utilizzabile in qualsiasi momento per far ridere gli amici o attirare l’attenzione.
Nei mesi successivi insegnanti statunitensi che sono anche creator iniziano a raccontare quanto l’espressione stia entrando nel linguaggio quotidiano delle classi. Alcuni la vietano durante le lezioni, altri la accettano come parte del normale rumore generazionale. L’episodio dedicato da South Park, in cui la frase diventa simbolo di una finta setta scolastica, fa esplodere ulteriormente la sua notorietà. Videogiochi come Clash Royale e Overwatch 2 introducono addirittura un gesto ispirato al tormentone, integrandolo nelle animazioni dei personaggi. È il momento in cui “six-seven” diventa pop culture globale.
Quando la frase arriva in Italia, tra settembre e ottobre 2025, i ragazzi la adottano senza alcuna traduzione, anche se qualcuno scherza usando la versione “sei-sette”. Molti la ripetono perché già presente nei video che seguono ogni giorno, altri perché la sentono dire dai compagni e la associano a un modo rapido e innocuo di fare gruppo. Non significa nulla, come confermano gli stessi adolescenti intervistati da vari giornali americani. È un modo per dire qualcosa senza dire niente, per vedere se gli altri reagiscono, per creare un piccolo segnale interno che separa chi “sa” da chi appartiene al mondo adulto. E questa separazione, come nota il giornalista Ryu Spaeth, è il cuore dello slang: un codice identitario che non serve a comunicare un contenuto, ma a marcare un’appartenenza.

Perché “six-seven” mette in difficoltà gli adulti e cosa ci dice sul modo in cui i ragazzi costruiscono legami, umorismo e identità sociale
Uno degli elementi più interessanti del fenomeno non è il tormentone in sé, ma la reazione degli adulti. Molti genitori raccontano di sentirsi spaesati quando i figli lo ripetono improvvisamente in auto, a tavola o mentre fanno i compiti. Insegnanti di scuole medie e superiori ammettono di percepire la frase come qualcosa che sfugge al loro controllo, perché non ha un significato da correggere o spiegare. Non è una parola offensiva, non è un riferimento culturale preciso, non è un codice che si possa decifrare. Questa ambiguità crea una distanza che in realtà è tipica della dinamica tra generazioni: i ragazzi cercano qualcosa che sia loro, che non appartenga al mondo degli adulti, e che non possa essere interpretato o “normalizzato”.
Molti adulti litigano sul senso della frase, ma il suo potere sta proprio nell’assenza di un significato definito. È la stessa logica che rese popolare, più di dieci anni fa, la risposta “mi piacciono i treni”, che i ragazzini usavano fuori contesto, riferendosi a un video virale. O, ancora prima, la risata da scuola elementare legata ai numeri 69 e 420, che indicavano tutt’altro ma venivano ripetuti come codici identitari di gruppo.
Nel caso di “six-seven”, la diffusione arriva in un momento sociale in cui l’umorismo dei giovanissimi è costruito su frammenti brevissimi, audio ricorrenti, riferimenti iper-veloci. Ridere insieme non richiede più spiegazioni, ma riconoscere un suono, un tono, un gesto che appartiene a chi vive negli stessi spazi digitali. Il ragazzino che urla “six-seven” non sta cercando di comunicare un contenuto: sta cercando un’alleanza. È un invito a partecipare a un gioco in cui l’assurdo è più forte del significato, ed è proprio questa leggerezza che crea comunità.
Il sociologo Joshua Rothman ricorda che adolescenti e preadolescenti vivono in un mondo complesso, dove relazioni e identità cambiano continuamente. Un’espressione come “six-seven” funziona perché riduce la tensione sociale, rompe il silenzio, permette di interagire senza rischiare di sbagliare. È un modo semplice per dire “sono qui, sto scherzando con voi, facciamo parte dello stesso gruppo”. È il linguaggio dell’appartenenza, non della comunicazione.
La reazione degli adulti, spesso un misto di fastidio e confusione, rivela invece un altro aspetto: la sensazione di perdere gradualmente la capacità di comprendere il mondo dei figli. Non perché i ragazzi siano cambiati, ma perché lo slang giovanile, ad ogni generazione, costruisce sempre nuovi modi per creare confini simbolici. “Six-seven” è un confine leggero, quasi innocente, che però funziona perché divide chi appartiene a un’età precisa e chi non può più farne parte.
In molte scuole italiane la frase viene vissuta come una piccola ribellione giocosa, in altre come una moda destinata a passare, e in alcuni casi come un gesto per attirare attenzione durante le ore più noiose. La sua diffusione varia di classe in classe: può essere usata quasi solo dai maschi più vivaci o anche dalle ragazze che trovano divertente imitare quello che vedono online. A volte è percepita come una cosa sciocca, altre come un codice interno che rafforza amicizie e gruppi. Il ciclo dei tormentoni è sempre lo stesso: arriva, esplode, irrita gli adulti, poi sparisce. Ma quello che lascia alle spalle è la fotografia di un modo di comunicare che sfrutta l’assurdo per costruire legami, per ridere insieme e, soprattutto, per sentirsi parte di qualcosa.






