C’è un profumo che in Toscana si riconosce a occhi chiusi: quello della frolla calda che si apre sotto la forchetta e lascia uscire un cuore cremoso di riso cotto nel latte, arancia e vaniglia. È l’identità del budino di riso, un dolcetto umile e fiero, che nelle città toscane prende il posto dei classici cornetti e delle brioche a colazione. Al bar, sulle vetrine della pasticceria, nei forni di quartiere, è sempre lì, ovale, lucido, morbido. Un piccolo rito quotidiano che per i toscani vale quanto un cappuccino ben fatto.
Non è un dolce da passerella, non ha l’eleganza marmorina dei dessert moderni. È un dolce sincero, nato dalla cucina contadina, cresciuto dentro case e forni, diventato tradizione quasi senza accorgersene. E oggi celebrato persino con una gara ufficiale che ogni anno raccoglie i migliori pasticceri, pronti a difendere la propria versione con orgoglio quasi patriottico.
Un dolce povero che nasce tra risaie, cascine e bar di città
Il budino di riso ha un’origine che non ha lasciato molte tracce scritte, ma vive da più di un secolo nella memoria collettiva. I primi accenni risalgono agli inizi del Novecento, quando le famiglie contadine toscane lavoravano ciò che avevano, e in cucina non si buttava niente. Il riso, spesso portato a casa come parte del compenso delle mondine che andavano nelle risaie di Piemonte e Veneto, diventò un ingrediente prezioso. Finiva nelle minestre, nelle torte di riso emiliane, e in Toscana nel ripieno di un dolce che si sarebbe trasformato in simbolo di intere generazioni.
Siena rivendica da sempre la paternità del “budinone”, un’antenata più grande e arricchita da uvetta e canditi, tipica merenda dei bambini. Firenze risponde proponendo il budino monoporzione che oggi conosciamo, più elegante, più cremoso, più vicino all’idea moderna di pasticceria. In mezzo, città come Pistoia, che ancora oggi ne difendono una versione locale. Le storie si intrecciano e nessuno vuole cedere il titolo, ma forse non importa davvero chi l’abbia inventato. Importa come è entrato nell’immaginario collettivo: un dolce di recupero che ha attraversato decenni senza perdere identità.
La sua struttura è semplice e geniale: il riso cotto nel latte con scorza d’arancia e vaniglia, unito a una crema pasticciera ricca, tutto racchiuso in un guscio di pasta frolla che in forno si indora e protegge la morbidezza del ripieno. Nonostante il nome, non ha nulla della consistenza gelatinosa dei budini: è una crema solida, densa, setosa, che profuma di forno caldo.
Tra tradizione e competizioni: la gara di Firenze che celebra il budino
A Firenze, ogni anno, il Festival delle Pasticcerie dedica un concorso proprio a questo dolce. Il 18 novembre, nella sede della pasticceria Cartabianca, si tiene una sfida che coinvolge alcune delle migliori insegne della regione. A guidare l’iniziativa c’è Maurizio Melani, giornalista e docente universitario, insieme allo chef itinerante Massimo Cortini. Il loro obiettivo è custodire e far conoscere la tradizione dolciaria toscana, spesso ombreggiata da quella più famosa delle città d’arte.
Il budino di riso ha quindi trovato la sua consacrazione: una competizione che mette a confronto consistenze, profumi e tecniche. C’è chi resta fedele alla ricetta più antica e chi sperimenta versioni più leggere, ma tutti condividono un principio: il budino di riso si fa come si faceva una volta, con calma, precisione e rispetto.
Tra gli artigiani più noti c’è Antonio Betti della pasticceria Peccati di Gola di Siena, che da quarantacinque anni prepara lo stesso budino. Per lui la questione della forma non è un dettaglio, ma un punto sacro. Oggi si trovano spesso budini bassi e circolari, simili a crostatine, perché sono più veloci da produrre. Ma Betti difende la forma originale, ovale e alta, tipo stampo da aspic. “Quelli bassi si asciugano troppo”, spiega. “Il budino vero deve restare cremoso dentro, morbido, non un biscotto”.

Come si prepara il budino di riso perfetto: la ricetta dei maestri
Fare un buon budino di riso è un esercizio di pazienza. Ci vogliono tempo, ingredienti giusti e un po’ di rispetto per i processi lenti, quelli che non si possono accelerare. Nannelli, altro maestro pasticcere toscano, lo dice con chiarezza: “Per prima cosa, il riso. Io uso il Carnaroli, da sempre”. Il chicco deve rimanere compatto ma capace di assorbire latte e aromi senza disfarsi.
Il latte viene scaldato con scorza d’arancia e vaniglia di Tahiti, niente aromi artificiali. Il riso cuoce piano, impregnando ogni chicco di profumo. Poi arriva la crema pasticciera, ricca di tuorli, che si unisce al riso creando una massa densa e vellutata. Intanto si prepara la frolla: burro freddo, farina, zucchero, riposo lungo. Il riposo è fondamentale per ottenere un guscio friabile, capace di contenere il ripieno senza cedere.
L’assemblaggio richiede cura. Ogni stampo ovale viene foderato a mano con la frolla, riempito con il composto caldo e chiuso con una leggera rifinitura. In forno, il dolce cresce in silenzio e il suo profumo invade la cucina. La superficie si colora, il ripieno si compatta, la frolla si asciuga.
Il risultato finale è un piccolo scrigno dorato che sprigiona una cremosità che non ha rivali. Non a caso è considerato da molti il vero simbolo della colazione toscana: quella che non ti promette niente di sofisticato, ma ti accompagna con dolcezza fino all’ora di pranzo.
Perché il budino di riso è così amato: identità, memoria e quotidianità
Il budino di riso è rimasto fedele a sé stesso perché racconta una storia familiare, fatta di gesti quotidiani, di recupero intelligente, di sapori capaci di attraversare le generazioni. In un mondo in cui la pasticceria tende a reinventarsi continuamente, lui resta fermo, immutabile, semplice. Ed è forse proprio questo che lo rende speciale. È un dolce che parla di appartenenza, di luoghi, di mani che lavorano da decenni la stessa ricetta.
Per molti toscani è il primo sapore dell’infanzia, il dolcetto che la nonna comprava al bar, la merenda da passare di mano in mano dopo la scuola. Nei bar di Firenze è ancora oggi l’alternativa più richiesta ai cornetti. E nonostante il nome, non è mai stato un budino: è un pezzo di Toscana, fatto di latte, riso, pazienza e memoria.
Chi lo prepara oggi mantiene viva una tradizione che non ha bisogno di effetti speciali. Basta un morso. Il resto lo racconta lui.






