Washington, 18 ottobre 2025 – Volodymyr Zelensky esce dalla Casa Bianca e chiarisce subito il punto: “Sui missili a lungo raggio abbiamo deciso che non ne parliamo. Nessuno vuole un’escalation, e sono fuori questione“. Tradotto, niente Tomahawk. Subito dopo chiama gli alleati europei, Italia compresa, e si ferma davanti alle telecamere. Alla domanda se, dopo il colloquio con Donald Trump, sia più o meno ottimista sulla possibilità di riceverli, risponde: “Sono realista. La Russia ha paura dei Tomahawk, è un’arma molto potente. Ma ha ragione Trump: dobbiamo fermarci e parlare. Fermare la guerra sulla linea del fronte, poi discuteremo di tutto il resto“.
Zelensky, lo stesso realismo sulla Nato
Lo stesso termine, realista, Zelensky lo aveva usato per chiudere un’altra battaglia: l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Anche allora il rischio di un’escalation aveva fermato ogni prospettiva. Il quinto incontro con Trump, dopo la “catastrofe” diplomatica di febbraio, non è andato come il presidente ucraino sperava. Né come il colloquio di aprile a San Pietroburgo, né come l’incontro collettivo di agosto a Washington con i “volonterosi”. Eppure, a margine del Consiglio di sicurezza dell’Onu, Zelensky aveva persino creduto di aver ritrovato il suo più potente alleato.
Putin brucia l’incontro
Questa volta, però, Vladimir Putin gli ha “tolto la palla prima di calciarla”. Giovedì, mentre Zelensky era ancora in volo, il leader russo ha chiamato la Casa Bianca. Una mossa che ha costretto Trump a riprogrammare l’agenda e riscrivere i temi del vertice.
Nonostante ciò, il presidente ucraino tenta comunque la carta diplomatica: “Se mi dai i tuoi Tomahawk, io ti do i miei droni“. Un baratto geopolitico attorno alla tavola del pranzo di lavoro, dove i due presidenti siedono faccia a faccia con le rispettive delegazioni, sotto gli occhi di giornalisti e telecamere per una lunga conferenza informale, in pieno stile Trump.
Un dialogo cauto ma aperto tra Zelensky e Trump
Zelensky ha imparato a muoversi secondo le regole del “Trump bis”. Con un equilibrio tra fermezza e ossequio, mantiene calmo un interlocutore che non lo ha mai amato. “Ma iniziamo a capirci“, afferma. Trump, sostiene, “è ben consapevole della situazione al fronte“.
Il leader ucraino prova a costruire un terreno comune: “L’Ucraina ha migliaia di droni ma nessun Tomahawk. Gli Usa hanno Tomahawk e altri missili, ma potrebbero avere anche droni ucraini: possiamo collaborare. L’Ucraina può rafforzare la produzione americana e utilizzerà i Tomahawk solo contro obiettivi militari. Noi vogliamo la pace, ma Putin no“.
L’obiettivo mancato
Il bilaterale, però, ha deviato dagli obiettivi iniziali. “Zelensky era volato in America per rafforzare il supporto Usa e trasformare Trump in un vero alleato strategico, non in un mediatore“, spiega il politologo Ruslan Bortnik. Ma Trump preferisce interpretare il ruolo del “leader mediatore”, l’uomo che negozierà la pace.
L’equidistanza del presidente americano frustra Kiev, che puntava su cooperazione economica e coinvolgimento delle imprese Usa nel settore energetico e portuale, oltre a nuovi accordi industriali e a un inasprimento delle sanzioni contro Mosca. Tutti progetti rimasti sulla carta.
Le garanzie che mancano
Eppure, l’obiettivo politico, portare Putin al tavolo, potrebbe essere stato almeno in parte raggiunto. Zelensky non rinuncia al tema centrale: le garanzie di sicurezza che l’America ancora non concede.
“Le garanzie bilaterali degli Stati Uniti sono fondamentali, perché sono molto potenti“, ribadisce. “Trump ha la possibilità di porre fine alla guerra: come ha ottenuto il cessate il fuoco in Medio Oriente, può fare lo stesso qui. Questa è una grande opportunità per l’Ucraina“.






