Una crisi che sta crescendo di ora in ora: Donald Trump fa sul serio e invia tutta la potenza navale e militare degli Stati Uniti davanti al Venezuela, ufficialmente per combattere il regime di Nicolas Maduro e il narcotraffico dilagante nel Paese. Cina e Russia osservano e per ora non intervengono nonostante le richieste d’aiuto dello Stato sudamericano.
L’avanzata della “Ford” davanti al Venezuela: il potere del mare
A tutta velocità attraverso l’Atlantico, la squadra navale statunitense guidata dalla portaerei USS Gerald R. Ford si prepara a raggiungere le acque dei Caraibi. Salpata da Spalato, nell’Adriatico, la flotta potrebbe giungere entro la prossima settimana di fronte al Venezuela, completando così il più imponente dispiegamento americano nell’emisfero occidentale degli ultimi decenni.
Una volta giunta a destinazione, la “Ford” potrà contare su cinquanta cacciabombardieri, una decina di F-35, e su una squadriglia di droni Reaper operativi dalle piste di Porto Rico, dove il Pentagono ha già allestito il proprio quartier generale. A supporto, quindici unità navali tra incrociatori, cacciatorpediniere, navi minori e un sottomarino nucleare con oltre duecento missili cruise.
Completa lo schieramento una task force di 2.200 marines, equipaggiati con veicoli d’assalto anfibi, e il traghetto MV Ocean Trader, apparentemente civile ma in realtà trasformato in base galleggiante delle forze speciali. A bordo, 159 incursori addestrati a operazioni nel territorio sudamericano. Una tale concentrazione di mezzi e armamenti, sottolineano alcuni osservatori, supera perfino quella mobilitata durante la crisi di Cuba del 1961.
Segnali di guerra e cautela meteorologica
I venti di guerra soffiano forti. Dalla giornata di oggi, lo spazio aereo di Porto Rico è stato chiuso per ragioni di sicurezza, mentre il quartier generale statunitense coordina le operazioni.
L’unico elemento che potrebbe rallentare i piani è il meteo: dopo il passaggio del ciclone Melissa, non si prevedono altri uragani imminenti, ma i comandi militari consigliano prudenza. Un’offensiva su larga scala contro il Venezuela non partirebbe prima della metà di novembre, per evitare complicazioni climatiche.
Obiettivi pronti: manca solo l’ordine politico
Secondo il Wall Street Journal, il Pentagono ha già sottoposto alla Casa Bianca le liste dei bersagli e un programma operativo di lungo periodo. In linguaggio militare si parla di targeting: significa che tutto è pronto, e manca soltanto la decisione politica finale.
La prima fase dell’operazione includerebbe attacchi contro aeroporti e porti del Venezuela dove, secondo l’intelligence americana, i cartelli della droga godrebbero della protezione di milizie e reparti dell’esercito di Caracas.
Come ha dichiarato il segretario di Stato Marco Rubio:
“in Venezuela esiste un narco-stato governato dai cartelli. Questa è un’operazione contro i narco-terroristi, la Al Qaeda dell’emisfero occidentale: bisogna arrivare alla resa dei conti”.
Maduro nel mirino: accuse di narco-terrorismo
Il presidente del Venezuela Nicolás Maduro è formalmente incriminato per narco-terrorismo dalla giustizia statunitense, in base a un provvedimento adottato durante la prima amministrazione Trump. Tale accusa ha consentito a Washington di innalzare la taglia sulla sua testa a 50 milioni di dollari, fornendo anche una giustificazione legale alle recenti azioni armate, tra cui l’uccisione di 61 persone non identificate a bordo di quindici imbarcazioni sospette.
Operazioni che sollevano dubbi di legittimità, sia giuridica sia etica, e che hanno già provocato tensioni interne al comando militare. L’ammiraglio Alvin Holsey, a capo del Southern Command responsabile dell’America Latina, si è infatti dimesso in segno di dissenso rispetto alla strategia imposta dalla Casa Bianca.

Cia in azione: la strategia della pressione
Nonostante le dimissioni e le perplessità, Donald Trump – tornato alla guida dell’amministrazione – sembra deciso a proseguire. Secondo indiscrezioni fatte trapelare dalla Casa Bianca, la Cia avrebbe ottenuto ampia libertà d’azione in Venezuela.
L’obiettivo sarebbe quello di favorire una rivolta interna: convincere alcuni reparti dell’esercito a ribellarsi o addirittura a catturare Maduro. Nel frattempo, i raid aerei contro i motoscafi dei trafficanti e le sortite dei bombardieri strategici B1 e B52 fino ai confini di Caracas servono a mantenere alta la pressione e a preparare un possibile cambio di regime senza arrivare a una guerra aperta.
Le difese di Maduro e il sostegno degli alleati
Sul piano militare, Maduro dispone di risorse limitate. Il suo arsenale comprende missili terra-aria russi S-300, caccia Sukhoi Su-30 armati con ordigni antinave, e droni a lungo raggio.
Per rafforzare le difese, Caracas si è rivolta a Teheran, chiedendo sistemi radar passivi capaci di individuare gli F-35, nuovi droni teleguidati e apparati di contromisure elettroniche per disturbare i segnali GPS.
Dal Cremlino, Maduro ha chiesto l’aggiornamento dei Sukhoi e nuove batterie missilistiche. Tuttavia, la Russia difficilmente potrà fornire sistemi avanzati mentre è impegnata a fronteggiare gli attacchi ucraini sulle proprie infrastrutture. Mosca dispone invece di missili balistici e droni Shahed, che potrebbe inviare più facilmente.
Infine, appelli sono stati rivolti anche a Pechino, che mantiene ampie scorte di armi e tecnologie militari esportabili.
Mosca e Pechino osservano, ma non sfideranno Trump
Sia Putin sia Xi Jinping hanno interesse a proteggere il regime venezuelano: il primo per ragioni politiche, il secondo per garantire le forniture di petrolio. Tuttavia, nessuno dei due leader sembra disposto a sfidare apertamente Washington.
Così, mentre la flotta americana avanza verso il Mar dei Caraibi e i comandi militari attendono l’ordine finale, il mondo torna a guardare con apprensione all’oceano: un’altra crisi internazionale potrebbe esplodere da un momento all’altro, a poche miglia dalle coste del Venezuela.






