Berkeley, 19 settembre 2025 – In un sorprendente e controverso sviluppo che ha acceso un acceso dibattito sulla libertà accademica e i diritti civili, l’Università di Berkeley, storica culla del movimento per la libertà di espressione e delle lotte civili degli anni ’60, ha fornito al governo federale di Donald Trump un elenco contenente i nomi di circa 160 tra professori, studenti e membri del personale coinvolti in proteste contro la guerra a Gaza. Questo gesto ha suscitato un acceso dibattito sull’equilibrio tra sicurezza e tutela delle libertà civili nell’ambito accademico.
La storia di Berkeley e il tradimento dei suoi valori
Berkeley, nota per essere stata un epicentro delle proteste studentesche negli anni Sessanta e per il Free Speech Movement del 1964, ha sempre rappresentato un simbolo della difesa della libertà di parola e dell’attivismo politico giovanile. Il movimento, che ispirò una vasta ondata di impegno civile contro la guerra del Vietnam e altre ingiustizie, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia americana. Eventi come l’occupazione del campus nel 1968 e la tragica repressione nota come “Bloody Thursday” del 15 maggio 1969, in cui uno studente perse la vita, sono ancora oggi ricordati come momenti chiave di resistenza e lotta per i diritti civili.
Tuttavia, oggi l’ateneo californiano si trova al centro di una controversia che appare come un paradosso rispetto al suo passato. La decisione di fornire al governo Trump i nomi di studenti, docenti e personale coinvolti in proteste contro la guerra a Gaza, in un contesto di inchiesta su presunti episodi di antisemitismo, è stata percepita da molti come un tradimento dei principi fondanti dell’istituzione. La filosofa e docente Judith Butler, figura di spicco e attivista, ha confermato di essere tra le persone segnalate, definendo la pratica una “vergognosa violazione di fiducia, etica e giustizia”, e ha denunciato la mancanza di trasparenza e di garanzie procedurali.
Le richieste del governo Trump e le reazioni nel sistema universitario californiano
La collaborazione dell’Università di Berkeley con la Casa Bianca non è un caso isolato: analoghe richieste di nomi di partecipanti alle proteste sono state rivolte a cinque atenei del sistema University of California (UC), tra cui UCLA, Santa Barbara, Irvine, San Diego e San Francisco. Claudio Fogu, docente presso la University of California Santa Barbara e membro del Council of University of California Faculty Associations, ha spiegato che in primavera la richiesta includeva anche i nomi di professori firmatari di appelli contro l’antisemitismo e che l’amministrazione universitaria ha fornito all’amministrazione Trump circa 200 nominativi con relativi dati personali.
L’invio di tali informazioni è stato accompagnato da una forte tensione interna all’UC System, dove le associazioni di docenti hanno intrapreso cause legali sia contro l’amministrazione federale, per i tagli ai finanziamenti minacciati da Trump, sia contro le università stesse, per la mancata trasparenza sulle richieste di Washington.
Nei confronti della University of California, Los Angeles (UCLA), la situazione ha raggiunto un livello ancora più critico. Il Los Angeles Times ha riportato una proposta di accordo che prevede una multa di quasi 1,2 miliardi di dollari per accuse di antisemitismo e che impone all’ateneo di accettare pubblicamente “elementi significativi della visione del Presidente Trump sull’istruzione superiore”. In cambio, il governo sbloccherà circa mezzo miliardo di dollari in sovvenzioni. Tra le richieste più controverse spiccano:
- il divieto di ammissione a studenti stranieri considerati “anti-occidentali”;
- la pubblicazione di dati dettagliati su personale e studenti suddivisi per “razza, colore, media voti e rendimento nei test standardizzati”;
- la negazione pubblica del riconoscimento dell’identità delle persone transgender;
- l’accesso governativo a personale, strutture, documenti e dati dell’università relativi all’accordo.
Un clima di crescente militarizzazione e tensione nel sistema universitario californiano
Oltre alle pressioni politiche e legali, il clima nelle università del sistema UC si fa sempre più teso anche sul fronte della sicurezza interna. Mercoledì scorso il consiglio di amministrazione ha approvato la richiesta di cinque campus (Los Angeles, Irvine, Santa Barbara, San Diego e San Francisco) di aumentare la dotazione di armi e munizioni per le forze di polizia in servizio nei campus. La polizia di San Diego, in particolare, ha richiesto 5.000 nuovi proiettili per fucile calibro 5,56 millimetri, mentre a Irvine si è chiesto l’utilizzo di 1.500 proiettili “pepper-ball”, munizioni non letali contenenti polvere di peperoncino utilizzate per il controllo delle folle e la difesa personale.
Questa militarizzazione crescente rappresenta un ulteriore segnale di un’atmosfera di crescente conflitto e controllo, in netto contrasto con l’immagine storica di Berkeley come luogo di apertura e contestazione pacifica. Il contrasto tra la tradizione di lotta per i diritti e la libertà di parola e le attuali politiche di repressione e controllo riflette le tensioni più ampie che attraversano gli Stati Uniti sotto la presidenza di Donald Trump, la cui amministrazione ha adottato posizioni fortemente conservatrici e autoritarie su temi di politica interna e istruzione superiore.
Il dibattito attorno al ruolo delle università nella difesa delle libertà civili e nella gestione delle pressioni politiche si fa dunque sempre più acceso, mentre la storia di Berkeley, simbolo di resistenza e attivismo, si confronta con le nuove sfide imposte da un contesto politico e sociale profondamente mutato.






