Per anni l’immigrazione è stata uno dei temi più divisivi della politica americana, ma durante la presidenza Biden si è trasformata in qualcosa di più: una crisi sistemica che ha inciso profondamente sulla fiducia degli elettori e sugli equilibri politici nazionali. Un’inchiesta approfondita del New York Times, ricostruita nel podcast The Daily attraverso le testimonianze di oltre trenta ex funzionari, racconta come esitazioni, errori di valutazione e scelte tardive abbiano contribuito ad aggravare la situazione, fino a rendere il confine uno dei fattori decisivi che hanno spianato la strada al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.
Avvertimenti ignorati prima ancora dell’insediamento
Già durante la campagna elettorale del 2020, alcuni consiglieri di Joe Biden avevano lanciato segnali d’allarme. Un memorandum circolato nell’agosto di quell’anno avvertiva che la combinazione tra promesse elettorali, domanda migratoria repressa negli anni di Trump e crisi economica legata al Covid avrebbe potuto generare un’ondata senza precedenti. Il rischio, si leggeva, era quello di una crisi umanitaria e politica capace di travolgere l’agenda della nuova amministrazione.
Durante la fase di transizione, nelle ultime settimane del 2020, gli stessi timori furono ribaditi in briefing riservati via Zoom: gli esperti suggerirono misure per scoraggiare i flussi e prevenire il caos, ma quelle raccomandazioni rimasero in larga parte inascoltate.
I due errori principali di Biden
Secondo numerosi ex funzionari, il gruppo ristretto attorno a Biden – che includeva figure come Ron Klain, Mike Donilon, Jennifer O’Malley Dillon e Anita Dunn – commise due gravi errori di valutazione. Il primo fu sottostimare l’ampiezza dell’ondata migratoria che stava per arrivare. Il secondo fu fraintendere l’impatto politico del fenomeno, convincendosi che un’applicazione più rigida delle norme avrebbe alienato l’elettorato latino e progressista e che l’immigrazione non sarebbe diventata una priorità per la maggioranza degli americani.

Questa lettura si rivelò errata. In seguito, molti elettori, compresi latini, indicarono proprio l’immigrazione come una delle ragioni principali del loro sostegno a Trump nel 2024. Come ha spiegato Cecilia Muñoz, già coinvolta nelle politiche migratorie dell’era Obama, l’intera squadra reagiva soprattutto agli eccessi dell’amministrazione precedente, senza riuscire a costruire una strategia autonoma.
Il primo anno di Biden: decisioni rapide, caos immediato
Una volta entrato in carica, Biden si mosse velocemente per smantellare l’impianto lasciato da Trump. Furono sospese le deportazioni per 100 giorni, ristrette le categorie di migranti soggetti ad arresto, fermata la costruzione del muro e cancellato il programma “Remain in Mexico”. Il presidente presentò anche al Congresso una proposta per creare un percorso verso la cittadinanza, mantenendo però in vigore il Titolo 42, che non venne più applicato ai minori non accompagnati.
Il messaggio percepito, tuttavia, fu quello di un confine nuovamente aperto. Gli incontri della Border Patrol alla frontiera sud-occidentale passarono da poco più di 75.000 nel gennaio 2021 a oltre 169.000 a marzo, superando qualsiasi picco registrato sotto Trump.
Paralisi politica e silenzio pubblico
Nonostante l’escalation fosse evidente, la Casa Bianca faticò a correggere la rotta. All’interno dell’amministrazione convivevano visioni opposte: alcuni temevano che Biden stesse andando troppo oltre, altri ritenevano prioritario non perdere il sostegno delle comunità latine. Le proposte per scoraggiare i flussi si arenarono per timore delle critiche da sinistra.
Secondo Scott Shuchart, ex consigliere senior dell’ICE, l’amministrazione non aveva una vera strategia perché non aveva definito un obiettivo chiaro. L’idea dominante era che il problema potesse attenuarsi da solo, permettendo di concentrarsi su altre priorità. Emblematico fu l’annullamento, nel giugno 2021, di un discorso presidenziale sul confine: parlare meno di immigrazione veniva visto come la soluzione migliore.
La svolta del 2022: i bus del Texas cambiano il dibattito
Nel 2022 la crisi assunse una dimensione nazionale. Il governatore del Texas, Greg Abbott, avviò una campagna di trasferimento dei migranti verso città a guida democratica, dichiarando di voler “portare il confine al presidente”. Dopo Washington, i bus iniziarono a raggiungere New York, Chicago e Filadelfia. Entro la fine dell’anno, oltre 16.000 persone erano state trasferite dal Texas.
L’amministrazione Biden bollò l’iniziativa come una provocazione crudele, ma l’impatto politico fu significativo. Molti funzionari ammisero che quello fu il momento in cui i Democratici persero il controllo della narrazione. Proposte interne per coordinare i trasferimenti con risorse federali furono scartate, per timore di attirare nuovi flussi o per dubbi sull’autorità legale.
Numeri record e città sotto pressione
Con l’avanzare del mandato, i dati divennero sempre più allarmanti. Nel 2022 la Border Patrol registrò 2,2 milioni di fermi lungo il confine messicano. Nel 2023, il numero di immigrati non autorizzati in attesa di una decisione superò i sei milioni, quasi il doppio rispetto al 2020.
Programmi come il C.H.N.V., introdotto nel gennaio 2023 per consentire ingressi legali da Cuba, Haiti, Nicaragua e Venezuela, portarono oltre mezzo milione di persone negli Stati Uniti, riducendo gli attraversamenti illegali da quei Paesi ma senza abbassare il totale complessivo. Anche l’app CBP One, utilizzata da oltre 900.000 richiedenti asilo dopo la fine del Titolo 42, ebbe solo un effetto temporaneo.
Nel frattempo, le città iniziarono a collassare sotto il peso dell’accoglienza. Denver ricevette più di 19.000 migranti dal Texas, arrivando a gestirne 43.000 complessivi, con costi superiori ai 100 milioni di dollari. A New York, il sindaco Eric Adams arrivò a dichiarare che la crisi avrebbe cambiato per sempre il volto della città.
L’ultimo anno di Biden e l’occasione mancata al Senato
All’inizio del 2024 sembrò aprirsi uno spiraglio politico. Un accordo bipartisan negoziato per mesi dai senatori Chris Murphy e James Lankford avrebbe concesso al governo maggiore autorità nel limitare le richieste di asilo. Ma l’intervento diretto di Donald Trump, che attaccò il disegno di legge sui social, fece crollare il sostegno repubblicano in poche ore.
Secondo Lankford, l’esitazione della Casa Bianca nei mesi precedenti fu decisiva: se l’accordo fosse stato chiuso prima, alla fine del 2023, avrebbe avuto maggiori possibilità di successo.
La stretta finale e il prezzo politico
Eventi simbolici, come l’omicidio della studentessa Laken Riley in Georgia, attribuito a un uomo entrato illegalmente nel Paese, rafforzarono la percezione di un fallimento democratico. Solo il 4 giugno 2024, a cinque mesi dalle elezioni, Biden firmò un ordine esecutivo che chiudeva di fatto il confine alle richieste di asilo, una misura più dura di quelle rifiutate all’inizio del mandato.
Durante il dibattito presidenziale, la difficoltà del presidente nel spiegare la propria linea sull’immigrazione divenne evidente. Poche settimane dopo, Biden si ritirò dalla corsa. Tornato alla Casa Bianca, Trump bloccò le richieste di asilo, chiuse l’app CBP One, inviò l’esercito al confine e ampliò drasticamente arresti e deportazioni, chiudendo definitivamente l’esperimento migratorio dell’era Biden.






