Riportare le fabbriche negli Stati Uniti è una promessa che suona semplice negli slogan, molto meno nei cantieri. Il caso del gigantesco polo dei semiconduttori in costruzione in Arizona, raccontato dal podcast The Daily del New York Times, mostra con chiarezza quanto la realtà del “Made in America” sia intricata, costosa e piena di contraddizioni. Quello che doveva diventare il simbolo della rinascita industriale americana si è trasformato in un laboratorio a cielo aperto sulle difficoltà strutturali del Paese.
Dal racconto del podcast al caso Arizona
L’episodio The Messy Reality of ‘Made in America’ prende le mosse da un progetto presentato per anni come la prova che gli Stati Uniti potessero tornare protagonisti nella manifattura avanzata. La costruzione di un enorme complesso industriale nel deserto dell’Arizona, sostenuta politicamente sia dall’amministrazione Trump sia da quella Biden, viene usata dal New York Times per smontare la narrazione più ottimistica. Il messaggio di fondo è chiaro: avviare grandi iniziative industriali non è affatto lineare, soprattutto quando si tratta di tecnologie di frontiera.
TSMC e l’ambizione strategica dei chip americani
Il progetto al centro della storia è guidato dalla Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, leader mondiale dei semiconduttori. A Phoenix, TSMC sta realizzando un complesso che, tra investimenti diretti e indotto, supera i 200 miliardi di dollari. L’obiettivo è cruciale per Washington: creare una capacità produttiva interna di chip avanzati, indispensabili per l’intelligenza artificiale, i data center e l’industria moderna, riducendo la dipendenza da Taiwan in un contesto geopolitico sempre più instabile. Non a caso, la decisione di investire negli Stati Uniti è stata spinta anche dalle pressioni di clienti come Apple e Nvidia, preoccupati da un’eventuale crisi nello Stretto di Taiwan.
Il “Silicon Desert” e l’ecosistema di Phoenix
La scelta dell’Arizona non è casuale. L’area di Phoenix ospita già centinaia di aziende legate ai semiconduttori e una forza lavoro che supera le decine di migliaia di addetti, grazie a una tradizione industriale iniziata con Motorola negli anni Cinquanta e rafforzata dall’arrivo di Intel negli anni Ottanta. Università come l’Arizona State University hanno ampliato in modo massiccio i corsi di ingegneria per sostenere la domanda di competenze. Questo ecosistema emergente ha fatto guadagnare alla regione il soprannome di “Silicon Desert”, ma la crescita rapida ha anche messo in luce i suoi limiti strutturali.
Le “18.000 regole” e l’inerzia burocratica
Uno dei punti centrali messi in evidenza dal podcast e dall’analisi del New York Times riguarda la burocrazia. Peter S. Goodman, ospite dell’episodio, spiega come TSMC si sia trovata ad affrontare un sistema normativo frammentato, molto diverso da quello taiwanese. Secondo il CEO C.C. Wei, ogni passaggio negli Stati Uniti richiede permessi multipli e tempi almeno doppi rispetto a Taiwan. In alcuni casi, l’azienda ha dovuto addirittura contribuire a definire nuove regole: un processo che ha portato alla creazione di circa 18.000 norme specifiche, con costi e ritardi significativi.
Costi elevati e problemi di competitività
Alla complessità regolatoria si somma il nodo dei costi. Già anni fa, il fondatore di TSMC Morris Chang aveva avvertito che produrre chip in Arizona sarebbe stato fino al 50% più caro rispetto a Taiwan, mettendo in dubbio la competitività globale degli impianti americani. La costruzione nel deserto ha inoltre fatto emergere spese impreviste, legate all’adeguamento alle norme di sicurezza e alle infrastrutture, che hanno ulteriormente appesantito il bilancio di un progetto già colossale.
Manodopera, scontri culturali e tensioni sindacali
Un altro tema chiave è la carenza di competenze locali. Negli Stati Uniti non si costruivano grandi fabbriche di chip da oltre un decennio, e questo ha costretto TSMC a far arrivare centinaia di tecnici esperti da Taiwan. La scelta ha alimentato tensioni con i sindacati e ha messo in luce profonde differenze culturali sul posto di lavoro. Orari, aspettative e modelli organizzativi importati dall’Asia orientale si sono scontrati con le abitudini e i diritti dei lavoratori americani, fino a sfociare in accuse di discriminazione e in una causa legale intentata da alcuni dipendenti.
Comunità locali e vincoli ambientali
La resistenza non è arrivata solo dall’interno dei cantieri. Le comunità vicine ai nuovi impianti hanno espresso forti preoccupazioni per l’impatto ambientale, in particolare per il consumo di acqua in una regione arida e per il traffico di sostanze chimiche. Il caso del fornitore Amkor, costretto a spostare il proprio progetto dopo le proteste dei residenti, dimostra quanto il consenso locale sia diventato un fattore determinante. Anche la tutela della flora e della fauna desertica ha imposto vincoli e rallentamenti inattesi.
Tra difficoltà e futuro: un successo possibile ma non semplice
Nonostante tutto, il progetto va avanti. Una fabbrica è già operativa, altre sono in costruzione e l’area attorno al sito di TSMC si sta trasformando, con nuovi quartieri residenziali e servizi pensati per accogliere migliaia di lavoratori. La recente cerimonia che ha celebrato l’avvio della produzione di chip per l’intelligenza artificiale destinati a Nvidia ha segnato una tappa simbolica. Le parole del CEO Jensen Huang, che ha definito l’impianto “un giorno importante per l’America”, riassumono bene la doppia natura di questa impresa: una svolta strategica per gli Stati Uniti, resa possibile però da un contributo globale decisivo.
Il caso dell’Arizona, così come raccontato da The Daily, resta quindi un esempio emblematico. Mostra quanto sia ampio il divario tra la visione politica del “Made in America” e la complessità concreta della sua realizzazione, soprattutto in un settore dove tecnologia, geopolitica e società si intrecciano in modo indissolubile.





