La Procura generale della Libia ha ordinato l’arresto e il rinvio a giudizio di Osama Almasri Anjim, ex dirigente della polizia giudiziaria di Tripoli, con l’accusa di aver torturato diversi detenuti e di aver causato la morte di uno di loro. La notizia è stata diffusa da Lybia24 attraverso un comunicato ufficiale pubblicato su X.
Secondo quanto riferito dalla Procura, la misura cautelare è arrivata dopo una lunga fase di interrogatori e la raccolta di prove che documenterebbero gravi violazioni dei diritti umani nella principale struttura di detenzione e riabilitazione della capitale. Almeno dieci prigionieri sarebbero stati sottoposti a torture o trattamenti disumani, e uno di loro sarebbe deceduto a seguito delle violenze subite.
Il mandato di arresto nei confronti di Almasri
Le autorità libiche avevano già avviato indagini sul caso, chiedendo a luglio la collaborazione della Corte penale internazionale (CPI) per acquisire ulteriori elementi probatori. Già nel 2025 la Corte dell’Aja aveva emesso un mandato di arresto internazionale nei confronti di Almasri per presunti crimini di guerra e contro l’umanità, tra cui omicidio, torture, violenze sessuali e persecuzioni, soprattutto legate alla gestione del famigerato carcere di Mitiga.
Il nuovo provvedimento della Procura libica, che dispone la sua detenzione preventiva in vista del processo, riporta dunque la vicenda nel perimetro della giustizia nazionale, pur lasciando aperta la possibilità di un futuro trasferimento all’Aja.
La posizione del governo italiano
Fonti di Palazzo Chigi hanno confermato che il governo italiano era a conoscenza del mandato di cattura libico già dal 20 gennaio 2025, data in cui il Ministero degli Esteri ricevette una richiesta formale di estradizione da Tripoli, quasi in contemporanea con il provvedimento della CPI.
Secondo tali fonti, proprio la pendenza del fascicolo libico fu uno dei motivi per cui Roma decise di non consegnare Almasri alla Corte penale internazionale, optando invece per la sua immediata espulsione verso la Libia.
L’arresto di Almasri e la controversa espulsione
Osama Njeem Almasri era stato fermato in Italia il 19 gennaio 2025, a Torino, mentre assisteva a una partita della Juventus insieme a tre connazionali. L’arresto, eseguito sulla base del mandato della CPI, fu però dichiarato nullo due giorni dopo per mancata consultazione preventiva del Ministero della Giustizia.
Almasri venne quindi liberato e rimpatriato a Tripoli a bordo di un aereo di Stato, dove fu accolto all’aeroporto di Mitiga da un gruppo di sostenitori appartenenti alle Forze speciali di deterrenza (Rada), la milizia di cui faceva parte e che gestiva proprio il carcere al centro delle accuse.
Le conseguenze politiche e giudiziarie in Italia
La scarcerazione e il rientro in Libia di Almasri provocarono un caso politico e giudiziario in Italia. Il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e quello dell’Interno Matteo Piantedosi furono iscritti nel registro degli indagati per il loro ruolo nella decisione di espulsione, ma il Tribunale dei ministri ha archiviato l’inchiesta dopo che la Camera dei deputati, il 9 ottobre, ha negato l’autorizzazione a procedere.
L’opposizione ha definito la vicenda una “figuraccia per l’Italia”, mentre dal governo si è sottolineato che la scelta di rimpatriare Almasri fu motivata da esigenze di sicurezza e cooperazione giudiziaria con Tripoli.
La reazione delle vittime e l’amarezza per l’Italia
Tra le voci più critiche, quella dell’avvocata Angela Bitonti, legale di una donna ivoriana residente in Italia che sostiene di essere stata torturata proprio da Almasri. Alla notizia dell’arresto in Libia, la Bitonti ha espresso soddisfazione ma anche amarezza: “Lo Stato italiano ha perso un’occasione per fare giustizia – ha dichiarato –. Ora valuteremo una richiesta di risarcimento nei confronti della Presidenza del Consiglio e dei ministri coinvolti”.
La legale auspica che Almasri possa finalmente essere processato, “in Libia o all’Aja”, e che la sua assistita “veda riconosciuta almeno una parte della giustizia che le è stata negata quando l’Italia lo aveva già nelle proprie mani”.






