In Italia esiste un esercito silenzioso di lavoratori che produce reddito, paga le tasse, versa contributi ma, per lo Stato, semplicemente non esiste. Sono precari, collaboratori, professionisti con partita Iva non iscritti agli ordini: quasi 1,1 milioni di persone che vivono in una condizione di iper-precarietà cronica, privi di tutele e condannati a una pensione – se mai ci arriveranno – a 71 anni. Il nuovo studio di NIdiL Cgil e Osservatorio Pensioni Cgil fotografa una realtà che sfida ogni logica di equità sociale: redditi così bassi da non permettere nemmeno l’accredito di un mese di contributi, carriere spezzate, contributi bloccati da regole tecniche che li trasformano in “contribuenti netti”, lavoratori fantasma per l’Inps. Una generazione povera oggi e destinata alla povertà anche domani, nonostante milioni di euro regolarmente versati.
L’iper-precarietà italiana: milioni di lavoratori senza tutele
La gestione separata dell’Inps conta 1,7 milioni di iscritti, ma dietro questo numero si nasconde una profonda distorsione. Più della metà dei contribuenti con compensi medi alti sono amministratori e sindaci di società, figure che alterano artificialmente la media dei redditi. Se si escludono queste categorie, restano oltre 1,1 milioni di lavoratori poveri, intermittenti, sottopagati: educatrici, operatori culturali, traduttori, grafici, call centeristi, guide turistiche. Uomini e donne che lavorano tanto, spesso troppo, ma guadagnano troppo poco per accedere ai diritti fondamentali.

Tra i collaboratori esclusivi, ancora attivi in migliaia nei settori più fragili del pubblico e del privato, il reddito medio nel 2024 non supera gli 8.566 euro lordi annui. Le donne, che rappresentano quasi la metà della platea, si fermano a 6.839 euro. Gli under 35, la componente più numerosa e più esposta, arrivano appena a 5.530 euro. Numeri che raccontano un Paese in cui un lavoro non basta più a condurre una vita dignitosa.
Il meccanismo del minimale: milioni di contributi versati per la pensione, zero mesi accreditati
La parte più sconcertante dell’analisi riguarda il funzionamento del minimale contributivo nella gestione separata. Nel 2024 servivano 18.555 euro annui per ottenere un anno pieno di contribuzione. Sotto questa soglia, l’Inps accredita solo una porzione di mesi. È un meccanismo proporzionale: chi guadagna la metà ottiene sei mesi; chi guadagna un quarto, solo tre. Ma la regola più feroce è quella dell’arrotondamento a zero: quando il calcolo produce meno di un mese, il risultato viene azzerato.
È così che nascono i “contribuenti netti”: lavoratori che versano contributi ma non ottengono nemmeno un giorno utile ai fini pensionistici. Tra i collaboratori esclusivi sono 64.722 persone – il 22,5% della categoria – che hanno versato oltre 14 milioni di euro senza ottenere nulla in cambio. Nessuna malattia, nessuna maternità o paternità, nessuna Discoll, nessun assegno familiare. Nemmeno un mese accreditato. Lo stesso destino riguarda 36mila professionisti esclusivi, tra cui 20mila donne e 13mila giovani under 35. Solo il 35% di questa categoria riesce a maturare un anno pieno di contributi.
Sono lavoratori reali, con vite reali, trasparenti però ai conti previdenziali.
Il futuro impossibile: la pensione scatta solo a 71 anni
Lo studio descrive senza mezzi termini un futuro previdenziale praticamente precluso per la stragrande maggioranza dei parasubordinati. L’uscita a 64 anni richiede almeno 30 anni di contributi effettivi e un assegno maturato pari a 3,2 volte l’assegno sociale: secondo le stime del 2030, significa almeno 1.811 euro mensili. Ma anche dopo 40 anni di contributi calcolati sul minimale, la pensione non supererebbe i 1.080 euro; con 30 anni scenderebbe a 773 euro. Risultato: nessuno dei parasubordinati potrà mai raggiungere la soglia richiesta. L’uscita a 64 anni è totalmente irraggiungibile.
Neppure la pensione di vecchiaia a 67 anni rappresenta una reale alternativa. Per accedervi occorre un assegno almeno pari all’assegno sociale – 566 euro nel 2030. Dopo 20 anni di contributi al minimale, però, la prestazione si fermerebbe a 554 euro: dodici euro di differenza che impediscono l’accesso alla pensione. Solo chi avrà almeno 30 anni di contributi potrà superare la soglia, ma per la maggior parte delle carriere discontinue questo traguardo è utopico.
La conclusione è drammatica: per il 92% dei collaboratori esclusivi e il 65% dei professionisti, l’unica pensione possibile sarà quella contributiva di vecchiaia a 71 anni, con assegni comunque “modesti e lontani da livelli dignitosi”.
La beffa dell’avanzo: miliardi accumulati, prestazioni minime
Il paradosso assume contorni ancora più taglienti osservando i conti della gestione separata. Nel 2024 ha registrato un avanzo di 9,6 miliardi di euro, un dato che conferma un trend positivo che prosegue da almeno dieci anni. Eppure, le prestazioni temporanee erogate – malattia, maternità, assegni familiari, Discoll, Iscro – valgono appena 97 milioni di euro. Una cifra minuscola se confrontata ai 2,7 miliardi di contributi versati dai soli collaboratori e professionisti esclusivi.
In più, sebbene l’aliquota complessiva sia la stessa dei dipendenti (33%), i collaboratori pagano di più: l’11,41% a loro carico, contro il 9,19% dei subordinati. Un differenziale di quasi due punti percentuali che rappresenta un vantaggio per le imprese e un aggravio per chi non ha tutele. E chi guadagna meno di 5.000 euro spesso non genera nemmeno contribuzione piena, aggravando ulteriormente i buchi contributivi.
Le richieste del sindacato e la mobilitazione del 12 dicembre
“Le scelte da fare vanno nella direzione opposta a quelle del governo”, denuncia Andrea Borghesi, segretario generale di NIdiL Cgil. Le proposte del sindacato sono chiare: un equo compenso che garantisca redditi adeguati, l’eliminazione del differenziale contributivo con i dipendenti, ammortizzatori sociali realmente universali che includano malattia, maternità e Discoll, e soprattutto una pensione contributiva di garanzia per le carriere discontinue.
Il 12 dicembre NIdiL scenderà in piazza insieme a collaboratori e partite Iva, nello sciopero generale contro una manovra che – sostengono – non affronta il tema cruciale dei redditi e delle pensioni della generazione più povera e invisibile del Paese.
Una generazione che lavora, paga, contribuisce. Ma che per l’Inps non esiste. Una generazione che rischia di scoprire troppo tardi che, mentre costruiva il presente, il suo futuro veniva sottratto mese dopo mese.






