Castel d’Azzano (Verona), 15 ottobre 2025 – La vicenda dei fratelli Ramponi a Castel d’Azzano, iniziata con un tragico incidente nel 2012, è ancora oggi un simbolo di lotta familiare e isolamento sociale in una realtà rurale che fatica a confrontarsi con il presente. Nel corso degli anni, le difficoltà economiche della famiglia si sono intrecciate con un conflitto legale e una resistenza ostinata a lasciare la loro casa di famiglia, un casolare antico situato nella località conosciuta come “la pesa”, poi conclusasi tragicamente con l’esplosione del casolare e la morte dei tre carabinieri.
Un debito che ha travolto una famiglia storica
Tutto ha avuto inizio quando uno dei fratelli Ramponi rimase coinvolto in un grave incidente stradale mentre guidava un trattore a fari spenti, scontrandosi con un camion e causando la morte dell’autista. L’evento ha innescato una serie di risarcimenti che hanno compromesso la stabilità finanziaria del nucleo familiare. Nel 2014, per far fronte ai debiti, fu sottoscritto un mutuo ipotecario da Dino Ramponi, formalmente a nome del fratello Franco, una mossa che ha dato il via a una lunga battaglia legale.
La sorella dei Ramponi contestò la validità di quel mutuo, ma i tribunali hanno confermato la legittimità del prestito. Da qui è partito il pignoramento del casolare, proprietà della famiglia da generazioni, situato proprio nel luogo dove un tempo sorgeva la pesa pubblica. La montagna di debiti si era trasformata in una valanga, e la loro casa era stata messa all’asta.
Una resistenza fuori dal tempo
I tre fratelli, tutti non sposati e senza figli, hanno scelto di non abbandonare il loro terreno, vivendo in condizioni che il vicesindaco Antonello Panuccio definisce “medievali”. La famiglia conduceva uno stile di vita rurale antico, simile a quello degli Amish, senza elettricità né gas, con bombole a uso domestico e trenta mucche che pascolavano di notte per evitare il traffico intenso diurno sulle strade circostanti.
Dopo la perdita dei genitori, i fratelli si sono chiusi ancora di più nel loro isolamento sociale, rifiutando ogni forma di aiuto e mantenendo una lucidità e consapevolezza piena della loro situazione, come sottolineato dalla sindaca Elena Guadagnini. Nel tentativo di opporsi allo sgombero, Maria Luisa Ramponi, un anno fa, salì sul tetto della casa minacciando di darsi fuoco, denunciando una presunta ingiustizia e una rete giudiziaria e legale che, a suo dire, aveva rovinato la famiglia.
Il ruolo del Comune e la mediazione mancata
Il Comune di Castel d’Azzano ha tentato più volte di mediare tra la famiglia e le autorità giudiziarie. I fratelli avevano provato a chiedere aiuto a parenti, al medico di base e persino al parroco, senza però mai accettare proposte alternative. Una assistente sociale del Comune riuscì a convincere Maria Luisa a partecipare a dei tentativi di mediazione, ma lei ribadiva in maniera ferma la volontà di restare nella casa di famiglia, rifiutando anche soluzioni abitative più confortevoli o in centro paese.
Il nodo cruciale della questione rimaneva il destino delle loro mucche e dei pascoli, elemento essenziale per la loro vita rurale. Un vicino conferma che i servizi sociali avevano trovato un accordo per spostare la famiglia in una casa, ma loro volevano mantenere anche la stalla e i terreni per gli animali, anche se in condizioni precarie.
Nell’ultimo tentativo di sgombero, avvenuto ieri sera, i fratelli hanno continuato a opporsi, nascondendosi e fuggendo tra gli alberi. I veterinari hanno impiegato ore e diversi viaggi per caricare le trenta mucche sul furgone e trasferirle altrove, segnando un altro capitolo di questa lunga storia di resistenza e disperazione.
La vicenda dei Ramponi rimane un caso emblematico di conflitto tra tradizione e modernità, tra il diritto e il senso di appartenenza a un luogo che è stato per generazioni il cuore della loro esistenza.






