Domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025 gli italiani saranno chiamati a votare su cinque referendum abrogativi che toccano due ambiti centrali della vita sociale del paese: lavoro e cittadinanza. I quesiti, proposti da diverse forze politiche e sindacali, mirano ad abrogare (cioè cancellare del tutto o in parte) alcune norme oggi in vigore. Perché i referendum siano validi, è necessario che voti almeno il 50% degli aventi diritto.
I seggi saranno aperti domenica dalle 7 alle 23 e lunedì dalle 7 alle 15. Potranno votare anche i fuori sede che ne hanno fatto richiesta entro il 5 maggio, gli italiani all’estero iscritti all’AIRE e chi si trova temporaneamente fuori dall’Italia per motivi di lavoro, studio o cure mediche (previa richiesta entro il 7 maggio).
Vediamo in sintesi i cinque quesiti, ognuno dei quali sarà presentato su una scheda diversa.
1. Cittadinanza italiana: ridurre da 10 a 5 gli anni per la richiesta
Il quesito propone di modificare l’articolo 9 della legge 91/1992, abbassando da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza legale ininterrotta richiesto per chiedere la cittadinanza italiana. Una volta ottenuta, la cittadinanza sarebbe trasmissibile ai figli minorenni.
Oggi, per ottenere la cittadinanza italiana, uno straniero deve aver vissuto legalmente in Italia per almeno dieci anni in modo continuativo. A questo periodo si sommano poi i tempi della burocrazia: la procedura può richiedere fino a tre anni per essere completata, quindi nella pratica ci vogliono anche 13 anni prima che una persona possa ottenere la cittadinanza italiana. Il referendum vuole abbreviare questo percorso, riducendo il tempo minimo richiesto a cinque anni, rendendo così possibile ottenere la cittadinanza in otto anni totali, compresi i tempi di elaborazione della domanda.
La proposta referendaria non modifica gli altri requisiti previsti dalla legge per ottenere la cittadinanza, che resterebbero invariati: servono ancora una buona conoscenza della lingua italiana, un reddito stabile, e l’assenza di condanne penali gravi. La modifica si concentrerebbe esclusivamente sul requisito della durata della residenza legale e continuativa.
Un aspetto importante da sottolineare è che, una volta ottenuta la cittadinanza, questa potrebbe essere trasmessa automaticamente anche ai figli minorenni, ampliando l’impatto della riforma. Secondo le stime, la riduzione del termine di residenza potrebbe riguardare oltre 2,3 milioni di persone che vivono da anni in Italia, studiano, lavorano, pagano le tasse, ma che non sono ancora formalmente cittadini.
Il quesito è stato proposto da +Europa e sostenuto da diverse forze progressiste, raccogliendo oltre 637mila firme in pochi mesi, grazie anche a una forte mobilitazione online. I promotori vedono in questa riforma un passo avanti per l’integrazione sociale, soprattutto per le famiglie e i bambini nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri, che spesso si sentono italiani ma non sono ancora riconosciuti come tali dallo Stato.
D’altra parte, chi si oppone alla proposta sostiene che la cittadinanza non dovrebbe essere “semplificata” troppo, perché rappresenta un passaggio importante e definitivo, che richiede un legame consolidato con il Paese. Alcuni critici temono che la riduzione degli anni possa diventare uno strumento troppo permissivo, senza garantire un’integrazione reale.
2. Licenziamenti illegittimi: reintegro per chi è stato assunto dopo il 2015
Il primo dei quattro quesiti sul lavoro riguarda il Jobs Act del 2015 e la sua disciplina sui licenziamenti nelle grandi imprese. In particolare, il quesito mira a ripristinare la possibilità del reintegro nel posto di lavoro per i lavoratori assunti con il cosiddetto contratto a tutele crescenti, introdotto con il Jobs Act nel 2015.
Attualmente, chi è stato assunto dopo il 7 marzo 2015 in un’azienda con più di 15 dipendenti – quindi con un contratto regolato dal Jobs Act – non ha diritto al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, nemmeno se un giudice stabilisce che il licenziamento era privo di giusta causa o ingiustificato. L’unica forma di tutela prevista oggi consiste in un risarcimento economico, che può andare da un minimo di sei a un massimo di trentasei mensilità di stipendio.
Il referendum propone di abrogare questa parte della legge, cancellando la regola che impedisce il reintegro automatico in caso di licenziamento illegittimo per i contratti a tutele crescenti. Se vincesse il Sì, si tornerebbe a un sistema simile a quello precedente, in vigore fino al 2012 con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla cosiddetta “legge Fornero”. In quel sistema, il reintegro nel posto di lavoro era previsto nei casi più gravi e ingiusti di licenziamento, accanto a un indennizzo economico.
Secondo i promotori del referendum – in particolare la CGIL, ma anche partiti come PD, M5S e Alleanza Verdi e Sinistra – l’attuale sistema ha indebolito le tutele dei lavoratori, rendendo troppo semplice per le aziende liberarsi di dipendenti scomodi o non graditi, anche senza validi motivi. Ripristinare il diritto al reintegro, secondo loro, significherebbe rafforzare i diritti dei lavoratori, dare più forza ai contratti a tempo indeterminato e ristabilire un maggiore equilibrio nei rapporti tra datore di lavoro e dipendente.
Al contrario, i sostenitori del No – tra cui i partiti di centrodestra, Italia Viva e Azione – difendono il sistema attuale, sostenendo che il Jobs Act ha favorito la creazione di posti di lavoro e dato alle imprese maggiore flessibilità, evitando lunghe cause legali e incertezze giudiziarie. Secondo questa visione, il reintegro forzato rischia di ostacolare l’iniziativa imprenditoriale e creare tensioni nei luoghi di lavoro.
3. Tutele nei licenziamenti nelle piccole imprese
Tra i cinque quesiti referendari su cui si voterà l’8 e il 9 giugno 2025, uno riguarda i licenziamenti ingiustificati nelle piccole imprese, cioè quelle con meno di 16 dipendenti. Attualmente, la legge prevede che in caso di licenziamento ritenuto illegittimo, i lavoratori di queste aziende abbiano diritto esclusivamente a un indennizzo economico, con un tetto massimo di sei mensilità di stipendio. Questo limite è fisso e vincolante, e il giudice che valuta la legittimità del licenziamento non può superarlo, anche in presenza di situazioni particolarmente gravi o penalizzanti per il lavoratore.
Il referendum propone di abrogare questa norma, eliminando il limite delle sei mensilità. Se il Sì dovesse prevalere, il giudice avrebbe la possibilità di decidere l’entità dell’indennizzo caso per caso, tenendo conto di una serie di elementi specifici, come la gravità del comportamento del datore di lavoro, l’età del lavoratore, la sua situazione familiare, e le condizioni economiche dell’azienda. Non si tratterebbe, quindi, di introdurre un reintegro automatico nel posto di lavoro – cosa che resta esclusa per le imprese di piccole dimensioni – ma di rendere più equa e proporzionata la compensazione economica, adattandola alla realtà concreta di ogni singola vicenda.
Secondo i promotori del referendum, tra cui la CGIL e partiti come PD, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, l’attuale disciplina è troppo rigida e penalizzante per i lavoratori, che in molti casi ricevono un risarcimento modesto anche in presenza di licenziamenti chiaramente infondati. L’obiettivo è quindi quello di rafforzare le tutele per chi lavora in piccole aziende, un settore che rappresenta una parte significativa dell’occupazione in Italia.
Dall’altra parte, i contrari al quesito – tra cui figurano i partiti di maggioranza, oltre ad Azione e Italia Viva – ritengono che questa modifica potrebbe creare maggiore incertezza per i piccoli imprenditori, esponendoli al rischio di dover pagare indennizzi più elevati in caso di contenzioso, e rendendo quindi più complicata e onerosa la gestione del personale.
In definitiva, chi voterà Sì al quesito chiederà di abrogare il tetto massimo dell’indennizzo e lasciare ai giudici la possibilità di valutare liberamente l’entità del risarcimento in base alle circostanze. Chi voterà No, invece, sceglierà di mantenere in vigore la norma attuale, che limita l’indennizzo a sei mensilità di stipendio, a prescindere dal caso specifico.
4. Contratti a termine: reintrodurre l’obbligo di causale
Il terzo quesito referendario mira a modificare la disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato, introducendo l’obbligo di specificare una causale per ogni contratto, indipendentemente dalla sua durata.
Attualmente, la normativa consente ai datori di lavoro di stipulare contratti a termine di durata fino a 12 mesi senza la necessità di indicare una motivazione specifica. Solo per contratti di durata superiore è richiesta una giustificazione, che può essere individuata dalle parti anche al di fuori delle previsioni di legge o dei contratti collettivi.
Il referendum propone di abrogare le disposizioni che permettono la stipulazione di contratti a termine senza causale. In caso di approvazione, ogni contratto a tempo determinato, anche di durata inferiore a 12 mesi, dovrà essere giustificato da una causale specifica. Le motivazioni ammissibili saranno limitate a quelle previste dalla legge o dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi a livello nazionale.
L’obiettivo dichiarato dai promotori, tra cui la CGIL, è quello di contrastare la precarizzazione del lavoro, limitando l’uso dei contratti a termine solo a situazioni effettivamente temporanee e giustificate. Si intende così favorire l’adozione di contratti a tempo indeterminato come forma standard di assunzione.
I sostenitori del referendum ritengono che l’introduzione dell’obbligo di causale per tutti i contratti a termine possa ridurre gli abusi e garantire maggiore stabilità ai lavoratori. D’altro canto, i critici temono che tale misura possa limitare la flessibilità delle imprese, rendendo più difficile l’adattamento a esigenze produttive variabili.
In sintesi, il quesito referendario propone di:
- Eliminare la possibilità di stipulare contratti a termine senza causale;
- Richiedere una giustificazione specifica per ogni contratto a tempo determinato, indipendentemente dalla sua durata;
- Limitare le causali ammissibili a quelle previste dalla legge o dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi a livello nazionale.
Gli elettori saranno chiamati a decidere se mantenere l’attuale normativa, che consente una maggiore flessibilità nell’uso dei contratti a termine, o se introdurre vincoli più stringenti per garantire maggiore stabilità occupazionale.
5. Responsabilità dell’impresa committente in caso di infortuni nei subappalti
L’ultimo quesito sul lavoro sul quale gli italiani saranno chiamati a esprimersi l’8 e il 9 giugno 2025 riguarda un tema molto concreto e delicato: quello della sicurezza nei luoghi di lavoro, in particolare nel contesto degli appalti e dei subappalti. Più precisamente, si tratta di decidere se estendere la responsabilità dell’impresa committente – cioè l’azienda che affida lavori ad altre ditte – in caso di incidenti o malattie professionali che colpiscano i lavoratori coinvolti.
Attualmente, la legge stabilisce che l’impresa committente è responsabile in solido con l’appaltatore e i subappaltatori solo in alcuni casi, cioè quando i lavoratori danneggiati non sono coperti da assicurazione obbligatoria (come l’INAIL, per esempio). Tuttavia, la norma esclude questa responsabilità quando l’infortunio è legato a un “rischio specifico” dell’attività svolta dall’appaltatore o dal subappaltatore. In altre parole, se il problema deriva da una fase particolare del lavoro che rientra nella sfera di responsabilità dell’impresa a cui è stato appaltato il compito, il committente non può essere chiamato a rispondere.
Il quesito referendario propone di eliminare proprio questa esclusione, rendendo quindi il committente sempre responsabile in solido con l’appaltatore e i subappaltatori a prescindere dal tipo di rischio che ha causato l’infortunio. Se dovesse vincere il Sì, l’impresa che affida un lavoro a terzi non potrebbe più “chiamarsi fuori” in base alla natura dell’attività svolta, ma sarebbe tenuta a rispondere insieme alle altre parti per i danni eventualmente subiti dai lavoratori.
Secondo i promotori, in primis la CGIL, questa modifica aumenterebbe la tutela effettiva della sicurezza sul lavoro, costringendo le aziende committenti a scegliere con maggiore attenzione i propri partner e a vigilare più seriamente sulle condizioni in cui si svolgono i lavori. Inoltre, attribuire una responsabilità diretta al committente anche nei casi oggi esclusi potrebbe contribuire a ridurre gli incidenti, incentivando comportamenti più prudenti e investimenti in prevenzione.
Chi si oppone al quesito, invece, teme che una simile estensione della responsabilità possa comportare oneri e rischi eccessivi per le imprese, specialmente per quelle che affidano in appalto solo una parte marginale delle proprie attività. L’argomento più spesso sollevato è che si rischia di colpire anche chi ha rispettato tutte le regole e ha scelto appaltatori regolari e affidabili, caricandolo comunque delle conseguenze di errori commessi da altri.
In definitiva, con il referendum si chiede agli elettori se vogliono che l’impresa committente sia sempre co-responsabile per gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali che colpiscono i lavoratori coinvolti nei contratti di appalto, anche quando questi eventi sono legati a rischi specifici dell’attività affidata. Un Sì rafforzerebbe la responsabilità e quindi, secondo i promotori, anche la prevenzione; un No manterrebbe la situazione attuale, limitando la responsabilità del committente solo a determinati casi.
Chi sostiene e chi si oppone
I referendum sono promossi dalla CGIL (quelli sul lavoro) e da +Europa (quello sulla cittadinanza). Hanno ottenuto l’appoggio di partiti come PD, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, mentre sono contrari i partiti di maggioranza, Azione e Italia Viva.
Perché votare è importante
Oltre al contenuto dei quesiti, il voto rappresenta un’occasione per i cittadini di partecipare direttamente alle scelte politiche. Ma attenzione: affinché i referendum siano validi, è necessario raggiungere il quorum del 50% dei votanti.
Informarsi e decidere se votare Sì o No è un passo fondamentale per incidere su temi che toccano diritti, lavoro e cittadinanza.






