Mentre Israele e Hamas hanno firmato l’accordo per il cessate il fuoco e l’attuazione della prima fase del piano di pace proposto dagli Stati Uniti — che prevede il rilascio reciproco di ostaggi e prigionieri, l’ingresso degli aiuti umanitari e l’avvio del ritiro delle truppe israeliane da Gaza — in Italia il dibattito si è concentrato su un altro fronte: quello mediatico.
Al centro, ancora una volta, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese.
Dal libro alla polemica
Giurista di formazione e studiosa del diritto internazionale, Albanese ha raccontato la vita nei Territori palestinesi prima del 7 ottobre 2023 nel libro “Quando il mondo dorme”.
Il volume, denso di esperienze dirette e testimonianze raccolte sul campo, offre un ritratto della Palestina quotidiana, fatto di voci, ostacoli burocratici e tensioni sociali.
Un lavoro che, per ampiezza e rigore, rappresenta una descrizione preziosa e dettagliata della realtà del popolo palestinese ben prima della strage compiuta da Hamas, ma che pochi tra i suoi detrattori sembrano aver letto prima di muoverle critiche.
Oggi quel bagaglio di conoscenza è quasi assente dal racconto mediatico che la riguarda, sostituito da una narrazione polarizzata e ridotta a slogan.
Gli errori comunicativi
Negli ultimi mesi, alcune uscite pubbliche della relatrice hanno contribuito ad alimentare la controversia.
Durante una cerimonia a Reggio Emilia, ad esempio, Albanese aveva corretto il sindaco Marco Massari, che la stava premiando, contestando il riferimento alla liberazione degli ostaggi israeliani come condizione per la pace.
L’episodio ha provocato imbarazzo e reazioni indignate, tanto che la stessa Albanese, pochi giorni dopo, a Diego Bianchi di Propaganda Live si è detta dispiaciuta per l’accaduto.
Qualche giorno più tardi, nel corso di una puntata del programma In Onda su La7, Albanese ha abbandonato lo studio dopo che il giornalista Francesco Giubilei l’aveva provocata sul tema del genocidio e sulle parole di Liliana Segre a riguardo.
La relatrice ha prima parlato di “impegni pregressi”, poi ha chiarito di non aver voluto discutere con interlocutori “poco competenti in materia”.
Due episodi che, seppur distinti, hanno finito per consolidare un’immagine di arroganza e snobismo — “radical chic” è uno dei termini più utilizzati dai suoi detrattori — fornendo ai suoi critici nuovi argomenti per metterne in dubbio il profilo istituzionale.
Il nodo Segre
Il rapporto difficile con parte dell’opinione pubblica ma soprattutto politica è esploso attorno al legame, finora indiretto, tra la giurista e Liliana Segre.
Albanese si era mossa mesi fa dopo un’intervista in cui la senatrice a vita aveva definito “compiaciuto” l’uso del termine “genocidio” riferito a Gaza. In risposta, la relatrice aveva pubblicato una foto accanto a un murale con la scritta “L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa” dedicato proprio a Segre, accompagnandola con il conteggio del numero dei giorni di attacchi israeliani nella Striscia.
Un gesto interpretato da alcuni come polemico, e che si è trasformato in uno dei principali punti d’attacco nei suoi confronti.
Tre giorni fa, intervistata da Fanpage, Albanese ha provato a chiarire la propria posizione: “Rispetto Liliana Segre, ma sul genocidio non è lucida. La sua opinione non è la verità”.
Dichiarazione che ha suscitato nuove polemiche, cui la relatrice ha risposto ieri con un ulteriore comunicato:
«Non ho lasciato la puntata di In Onda alla pronuncia del nome della senatrice Segre, che ammiro e rispetto. Piuttosto dinanzi all’uso strumentale che si fa del suo nome e del suo vissuto, per sviare il dibattito sul genocidio, dalla normativa vigente e dall’analisi legale che dovrebbero guidarlo. Rinnovo la mia stima e porgo i miei saluti alla senatrice Segre».
Nel frattempo, il figlio della senatrice, Luciano Belli Paci, aveva affidato al Corriere della Sera una replica dai toni fermi: “Mi colpisce che una rappresentante dell’ONU, invece di favorire il dialogo, scelga di contrapporsi a mia madre. Da lei mi aspetto più misura e più rispetto. È ossessionata da mia madre”.
Il mio commento al @Tg1Rai per chiarire, ancora una volta, le ragioni della mia decisione di lasciare la puntata di @InOndaLa7.
Spero vivamente che ora ci si possa dedicare a fare in modo che l’accordo per il cessate il fuoco a Gaza sia veicolo di pace vera e dignitosa per tutti. pic.twitter.com/n3RS75Slsx— Francesca Albanese, UN Special Rapporteur oPt (@FranceskAlbs) October 9, 2025
L’intreccio di accuse, chiarimenti e risposte successive ha reso difficile distinguere il piano personale da quello politico, alimentando una spirale mediatica che travalica i fatti e riduce ogni parola a schieramento.
Attacchi trasversali
“Ride quando si parla di ostaggi”, ha dichiarato Daniele Capezzone.
“L’ultima sóla della sinistra”, ha scritto Tommaso Cerno.
“Capopopolo sconfessata dai suoi amici di Hamas”, ha commentato la deputata di Fratelli d’Italia Alessia Ambrosi.
“Questa signora è pericolosa. È pericolosa per sé e per gli altri. Questa signora vorrebbe mettere in discussione un piano che ha trovato l’ok, almeno a stasera, perfino dei terroristi islamici di Hamas. E questa signora ha lo stipendio pagato da me, da te, da chi è in studio e da chi è a casa. Perché rappresenta noi. Questa signora non mi rappresenta e non vuole la pace” l’arringa, pesantissima, di Matteo Salvini.
Persino Paolo Mieli, in un suo recente intervento, ha instillato il dubbio che testate di sinistra – Il Fatto Quotidiano in particolare – possano non compiacersi dell’attuazione del piano di pace in Palestina visto che proprio ora un movimento filo-palestinese, con Francesca Albanese quale “leader autodichiaratasi”, stava crescendo riempiendo le piazze.
Una sequenza di giudizi che non lascia spazio alla sfumatura.
L’immagine pubblica della relatrice è diventata il contenitore di un intero conflitto simbolico: da un lato chi la accusa di indulgenza verso Hamas, dall’altro chi la difende – come gran parte dei manifestanti di questa Italia riscopertasi viva e pacifista – come voce autonoma in un panorama internazionale appiattito.
Le accuse di parzialità
Sui social e nei talk show sono circolati estratti dei suoi interventi, selezionati in modo parziale.
In uno di questi, Albanese analizzava la genesi di Hamas come fenomeno politico-sociale, evidenziando le condizioni che ne hanno favorito la crescita.
Il frammento, isolato dal contesto accademico, è stato presentato da alcuni come una giustificazione del terrorismo — una lettura che la stessa relatrice ha più volte smentito, ribadendo la distinzione tra spiegazione e legittimazione.
Le divisioni nella sinistra
In politica, tuttavia, non solo l’opposizione ha nel mirino Albanese. All’interno del Partito Democratico la sua figura divide.
L’europarlamentare Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo, ha commentato: “Le piattaforme delle manifestazioni si condividono, non si assecondano”, mentre il senatore Filippo Sensi ha aggiunto: “Non penso sia l’ora dei protagonismi individuali”, tirando di fatto le orecchie a un personaggio puntuale e carismatico che ad attivisti e manifestanti non ha mai fatto mancare il proprio esplicito appoggio.
Segnali di una distanza evidente da una parte della sinistra che preferisce tenersi lontana dalle posizioni più nette sul conflitto israelo-palestinese, e che oggi, con la firma del piano di pace, punta a non essere associata a toni o figure controverse.
Una figura sotto pressione
Francesca Albanese non ha mai manifestato ambizioni politiche dirette, ma il suo ruolo — per esposizione e peso simbolico — è ormai percepito come politico.
Le sue analisi sul diritto internazionale vengono lette in chiave ideologica; le sue apparizioni televisive diventano terreno di scontro più che di discussione.
Nel linguaggio dei media, la relatrice è passata da esperta indipendente a personaggio divisivo, da giurista a bandiera di un fronte. La sua volontaria sovraesposizione, poi, fa il resto.
Nel frattempo, la pace a Gaza, quella reale, resta fragile, ma mentre sul campo si intravvedono le prime tregue, nel dibattito italiano continua un conflitto parallelo, fatto di etichette, semplificazioni e campagne personali.






