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Francesca Albanese ospite a Tintoria: “Israele sta compiendo un genocidio, i documenti lo dimostrano”

Secondo la Relatrice, Israele esercita da quasi sessant’anni un’occupazione militare illegale che costituisce una vera e propria “dittatura militare”

by Alessandro Bolzani
7 Ottobre 2025
Global Summud Flotilla, Francesca Albanese

Francesca Albanese / shutterstock @lev radin

Nel corso della puntata del Podcast Tintoria pubblicata martedì 7 ottobre, Daniele Tinti e Stefano Rapone hanno intervistato Francesca Albanese, la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati. Il suo compito, definito da un mandato ONU istituito trent’anni fa, consiste nel monitorare e riferire sulle violazioni del diritto internazionale commesse da Israele in quanto potenza occupante. Si tratta di un incarico indipendente, con rango equivalente a quello di Assistente Segretario Generale dell’ONU, che Albanese ricopre come prima donna e prima persona sotto i settant’anni. La giurista italiana è stata selezionata per la sua competenza nel campo dei diritti umani e del diritto internazionale, maturata in anni di esperienza presso diverse agenzie delle Nazioni Unite, tra cui quella dedicata ai rifugiati palestinesi.

Albanese denuncia la “dittatura militare” di Israele

Nel corso della puntata, Albanese ha spiegato che la sua formazione alla School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra l’ha portata ad adottare una prospettiva critica sul diritto internazionale, che considera non solo come un insieme di norme regolative, ma anche come uno strumento che storicamente ha legittimato le gerarchie coloniali. Attraverso questa lente, Albanese interpreta il rapporto tra Israele e Palestina non come una disputa tra due entità politiche, ma come una forma di “coabitazione forzata e abusiva”. Secondo la Relatrice, Israele esercita da quasi sessant’anni un’occupazione militare illegale che costituisce una vera e propria “dittatura militare”. La Corte Internazionale di Giustizia, ricorda, ha già riconosciuto l’illegalità di tale situazione, chiedendo il ritiro delle truppe e lo smantellamento delle oltre 300 colonie che ospitano circa 800.000 coloni israeliani.

Il genocidio come categoria giuridica

L’analisi di Albanese ruota attorno a una tesi tanto forte quanto giuridicamente circostanziata: ciò che avviene a Gaza costituisce un genocidio. Non un’opinione, ma una qualificazione basata sulla Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Tale testo definisce il genocidio come l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, attraverso atti che comprendono l’uccisione, le gravi lesioni fisiche o mentali, l’imposizione di condizioni di vita mirate alla distruzione, il divieto di nascite e il trasferimento forzato dei minori.

Secondo Albanese, il genocidio non si manifesta in un singolo evento, ma in un processo graduale che inizia con la disumanizzazione del gruppo bersaglio. Le dichiarazioni di vari leader israeliani — come “sono tutti animali umani” o “non c’è nessun innocente a Gaza” — rappresentano, in questa prospettiva, prove di un intento genocida. Ordini come la sospensione di viveri, acqua e carburante ai civili rientrano, secondo il diritto internazionale, tra gli atti che configurano il crimine di istigazione al genocidio. L’obiettivo finale, spiega Albanese citando lo storico Raz Segal, è la cancellazione di un popolo per appropriarsi della sua terra: un caso di “genocidio coloniale” in senso classico.

Le prove citate da Albanese

A sostegno di questa qualificazione giuridica, la Relatrice Speciale cita un corpus di prove raccolte sul campo e analizzate da numerosi studiosi e organizzazioni internazionali. La distruzione sistematica di ospedali, scuole, università, campi agricoli, panetterie e flotte di pescherecci non costituisce, secondo lei, una somma di crimini di guerra isolati, ma un’azione complessiva rivolta contro l’intera popolazione palestinese in quanto tale. A Gaza, sottolinea, la fame è diventata un’arma deliberata: la prima morte per denutrizione registrata risale al 15 dicembre 2023.

Il numero di vittime, stimato in circa 65.000 morti di cui 20.000 bambini, illustra la portata della distruzione. L’interpretazione di Albanese trova riscontro in numerose autorità accademiche e istituzionali: gli storici del genocidio Omar Bartov, Raz Segal e Amos Goldberg; Amnesty International; le commissioni d’inchiesta dell’ONU; le organizzazioni israeliane per i diritti umani B’Tselem e Physicians for Human Rights, che hanno pubblicato un rapporto intitolato Our Genocide. A livello giuridico, la Corte Internazionale di Giustizia ha riconosciuto l’esistenza di un “rischio plausibile di genocidio”, attivando così per tutti gli Stati membri l’obbligo di prevenirlo.

L’economia del genocidio e la complicità globale

Un aspetto centrale delle sue indagini riguarda l’esistenza di una vera e propria “economia del genocidio”. Albanese individua tre fasi di questo sistema: lo sfollamento dei palestinesi attraverso la forza militare e la demolizione delle abitazioni; la sostituzione della popolazione con coloni israeliani che si insediano nelle terre confiscate; e infine la normalizzazione del sistema attraverso il coinvolgimento di istituzioni finanziarie, accademiche e commerciali internazionali.

La relatrice ONU per i territori palestinesi Francesca Albanese
Francesca Albanese | Alanews

Le disparità nelle risorse, come l’accesso all’acqua — 50 litri al giorno per un palestinese contro 350 per un israeliano — mostrano la natura strutturale dell’apartheid. Le grandi aziende tecnologiche, le banche e i fondi di investimento occidentali, denuncia Albanese, garantiscono il flusso di capitali verso Israele anche nei momenti di crisi economica, rendendosi così complici del mantenimento dell’occupazione.

L’Italia non è esente da responsabilità: nonostante le dichiarazioni ufficiali, Roma continuerebbe a consentire il transito e la vendita di armamenti, in violazione della legge 185/90 e delle decisioni della Corte Internazionale di Giustizia. Particolarmente controverso è il ruolo di Leonardo S.p.A., azienda a partecipazione statale, che proseguirebbe i contratti preesistenti con Israele, contribuendo indirettamente alle operazioni militari.

L’isolamento personale di Francesca Albanese

Le denunce pubbliche di Albanese hanno avuto un prezzo altissimo. Dopo la pubblicazione del suo rapporto sull’economia dell’occupazione, gli Stati Uniti hanno imposto contro di lei sanzioni personali: divieto d’ingresso nel Paese, congelamento di eventuali beni e proibizione per cittadini e imprese americane di intrattenere qualsiasi rapporto economico con lei, pena fino a vent’anni di carcere e un milione di dollari di multa. Le sanzioni, afferma, violano la Convenzione sui privilegi e le immunità dei funzionari internazionali, che tutela gli atti compiuti nell’esercizio del mandato ONU.

A causa dell’extraterritorialità delle norme finanziarie statunitensi, nessuna banca europea accetta di aprirle un conto corrente. La Relatrice racconta con ironia amara di vivere “scroccando”, come lei stessa dice, per far fronte all’impossibilità di operare normalmente nel sistema bancario.

A questo si aggiunge l’uso sistematico dell’accusa di antisemitismo come arma politica. Albanese definisce l’antisemitismo per ciò che è realmente — odio e violenza contro gli ebrei in quanto tali — ma denuncia la distorsione del termine, utilizzato per mettere a tacere ogni critica alle politiche israeliane. Tale pratica, osserva, non serve a proteggere le comunità ebraiche, bensì a sopprimere la libertà di espressione. Parallelamente, mette in guardia contro l’aumento di un “antiarabismo diffuso”, un razzismo verso gli arabi e i musulmani che sta contaminando il discorso pubblico europeo.

Il ruolo della società civile e la possibilità di fermare il genocidio

Di fronte all’inazione dei governi, Francesca Albanese individua nella società civile globale l’unica forza capace di interrompere la spirale di violenza. “Prima di essere elettori, siamo consumatori”, afferma, invitando a un boicottaggio etico dei prodotti e degli investimenti che alimentano l’industria bellica israeliana e l’economia delle colonie. Le manifestazioni di piazza, aggiunge, non sono solo un gesto politico, ma un atto di salute collettiva e di pressione sui governi.

La Relatrice cita con ammirazione l’esperienza della Freedom Flotilla, definendola “una delle missioni umanitarie più poderose mai realizzate”. Le imbarcazioni, partite per rompere l’assedio di Gaza e consegnare aiuti, sono state attaccate con droni e sostanze chimiche, ma i partecipanti hanno continuato la loro missione, diventando simbolo di una solidarietà concreta e universale.

Secondo Albanese, ciò che distingue la tragedia palestinese dai genocidi del passato è la consapevolezza globale che oggi l’accompagna. “Questo è il primo genocidio che può essere fermato dalla gente come noi”, afferma. Le sue parole non sono soltanto un atto di denuncia, ma un appello alla responsabilità collettiva: impedire che un intero popolo venga cancellato sotto lo sguardo del mondo e ricordare, come conclude la stessa Relatrice, che i palestinesi “non stanno morendo da soli e disumanizzati da tutti noi”.

Per approfondire: 7 ottobre, due anni dall’attacco di Hamas che cambiò tutto. Cos’è successo da allora?

Tags: Francesca AlbaneseGazaHamasIsraelePalestinaUltim'ora

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