Non è stata una partita noiosa. Anzi con ogni probabilità lo spettacolo offerto dalle sue finaliste è andato ben oltre le aspettative e possiamo dire con certezza che Milan ed Inter hanno reso onore all’ultimo atto della Supercoppa Italiana. E dobbiamo ormai abituarci al fatto che questo trofeo, o meglio ancora torneo, consti di tre atti separati: due semifinali ed una finale. La prima edizione con questo format risale alla scorsa stagione, quando a vincere fu l’Inter. Una riforma fortemente voluta dalla Lega Serie A e frutto di un accordo milionario con il mondo calcistico arabo (ancora tu) che guarda solo ed esclusivamente all’aspetto economico senza considerare, né valutare le ricadute storiche e di senso della tradizione che una tale scelta significa per il calcio italiano.
La Supercoppa ha da sempre avuto e lo ha ancora nei principali campionati europei, la funzione di essere da apripista alla stagione entrante. E per farlo, vengono messe di fronte le due squadre che, nella stagione precedente, hanno espresso il miglior calcio vincendo le due principali competizioni calcistiche del calcio professionistico italiano ovvero il titolo di Campione di Serie A e della Coppa Italia. Essendo queste due compagini la sintesi del meglio del calcio italiano, un racconto di una stagione che è stata e di quella che verrà in un epilogo e prologo allo stesso tempo, questa gara unica viene disputata ad agosto a pochi giorni dalla prima giornata di campionato. Questo almeno per 29 anni, dal 1988 al 2017.
Poi le cose iniziano a cambiare. Gli interessi economici prendono il sopravvento e le avances in monete sonanti dell’Arabia Saudita si intravedono all’orizzonte. Si cambia periodo, gennaio o dicembre, ma le protagoniste resteranno sempre le stesse e poco male se quelle che si sfidano nella finale unica magari non rappresentano più il meglio del calcio italiano della stagione precedente. In fondo, pecunia non olet. E poi la Lega Serie A ha una missione ben precisa: esportare il prodotto-calcio-italiano, almeno questa è la facciata. Negli anni ’90 e poco oltre, il prodotto erano i calciatori: bastava un Maldini, un Baggio, un Totti o Del Piero ed il marchio del pallone nostrano era riconosciuto anche da chi il calcio non lo aveva maj seguito. Ora lo si fa portando fisicamente le squadre italiane all’estero e non importa se in campo di talenti italiani non se ne vedono: è pur sempre Serie A.
Ma il colpo finale arriva la scorsa stagione. Non basta giocare in inverno e non basta una gara unica. Meglio un torneo allargato. E quindi la Supercoppa Italiana o quel che ne rimane si apre anche alla seconda classificata in campionato e alla finalista di Coppa Italia. E capita dunque che ad alzare il trofeo non solo non è quella che squadra che dovrebbe rappresentare il meglio del calcio italiano, ma anche quella che, nella stagione precedente, non ha messo titoli in bacheca. Eppure per questo nessuno si scandalizza; in fondo conta perseguire un obiettivo più nobile del richiamo della tradizione: esportare il (vuoto) calcio italiano,
Alfonso Russo