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Home Approfondimenti

“Be there, will be wild”: la notte in cui un tweet di Trump cambiò la storia Usa

Secondo alcune ricostruzioni, fu un post di Trump pubblicato il 19 dicembre 2020 a innescare la miccia che portò agli eventi del 6 gennaio 2021

by Alessandro Bolzani
12 Novembre 2025
Donald Trump

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump | pexels @Library of Congress - alanews.it

Per settimane, Donald Trump aveva alimentato un’aspettativa febbrile. Nei suoi comizi, nei messaggi social, nelle interviste, ripeteva lo stesso mantra: “Mi hanno rubato la vittoria”. Il 6 gennaio 2021, data della certificazione ufficiale dei voti elettorali di Joe Biden, divenne presto un simbolo per i suoi sostenitori. “Save America”, “Stop the Steal”, erano le parole d’ordine che circolavano ovunque, da Facebook a Telegram, da Parler a Gab.
Quel giorno, promesso come “la resa dei conti”, si sarebbe rivelato uno dei più bui nella storia della democrazia americana.

Il tweet di Trump che infiammò gli animi

Tutto cominciò nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 2020, dopo una riunione tesa alla Casa Bianca. Attorno a Trump si erano radunati alcuni dei suoi più fedeli sostenitori: l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, l’avvocato personale Rudy Giuliani e altri consiglieri esterni. Avevano un piano disperato: ordinare all’esercito di sequestrare le macchine per il voto, nella speranza di dimostrare un inesistente broglio elettorale.
I consiglieri legali della Casa Bianca tentarono di opporsi, chiedendo prove che non arrivarono mai. Ma la frustrazione del presidente trovò sfogo in un messaggio postato su Twitter alle 1:42 del mattino:
“Statistically impossible to have lost the 2020 Election. Big protest in D.C. on January 6th. Be there, will be wild!”

Trump on December 19: “Big protest in D.C. on January 6th. Be there, will be wild!” pic.twitter.com/sTFdLsi83I

— Michael Holmes (@holmesnetmedia) January 6, 2021


Siate lì. Sarà selvaggio.
Quella frase, breve e tagliente, divenne un detonatore.

Le conseguenze del tweet di Trump

Secondo il Comitato d’inchiesta del Congresso americano, fu proprio quel tweet a trasformare la rabbia online in azione concreta. L’appello “Be there” si diffuse rapidamente tra le comunità più radicali della rete: dai Proud Boys agli Oath Keepers, fino ai forum legati a QAnon.
Un ex dipendente di Twitter, ascoltato dal Congresso, raccontò di aver visto “un’ondata improvvisa di retorica violenta” subito dopo la pubblicazione del messaggio. I commenti, da semplici sfoghi, divennero apertamente minacciosi. C’era chi parlava di “guerra civile”, chi condivideva mappe di Washington e indirizzi di politici, chi postava foto di armi d’assalto con l’intenzione di portarle alla manifestazione.

A prescindere dalle intenzioni con cui Trump l’aveva postato, nel giro di pochi giorni il suo tweet si trasformò in un invito a marciare su Washington, perlomeno nella mente di chi lo sosteneva.

Dalle chat al Campidoglio

Sui social alternativi, ormai rifugio di chi era stato bandito da Facebook e Twitter, le conversazioni assumevano toni sempre più estremi. Nei canali dedicati alla “Red-State Secession” si parlava apertamente di “occupare il Campidoglio” e “riprendersi l’America”.
Ali Alexander, un attivista repubblicano che si autoproclamò leader del movimento “Stop the Steal”, divenne uno dei principali organizzatori. Le sue dirette e i suoi post ricalcavano perfettamente le parole del presidente: “Il 6 gennaio sarà la nostra occasione per fermare il furto”.
Mentre le istituzioni americane preparavano la cerimonia formale della certificazione del voto, nei forum si discuteva di logistica: dove parcheggiare, quali strade prendere, come aggirare i blocchi della polizia. Era una mobilitazione spontanea, ma alimentata da un chiaro messaggio politico: Trump non doveva concedere la sconfitta.

L’ultimo appello di Trump

Nelle settimane precedenti all’assalto, Trump aveva continuato a postare con insistenza. “See you in D.C. on January 6th”, “StopTheSteal!”, “Don’t miss it”. A ogni tweet, migliaia di risposte rilanciavano l’appello.
Alla vigilia dell’evento, il vicepresidente Mike Pence annunciò che non avrebbe bloccato la certificazione del voto, spiegando che la Costituzione non gli dava quel potere. Per Trump fu un tradimento. E poche ore dopo, davanti alla folla radunata a Washington, il presidente alzò la voce:
“Non ci arrenderemo mai. Non concederemo mai. Il nostro Paese ha avuto abbastanza. Marciamo verso il Campidoglio per dare ai repubblicani il coraggio di riprendersi l’America”. Nello stesso discorso aveva però specificato che la protesta avrebbe dovuto avere una natura pacifica.

Erano le 12 in punto del 6 gennaio 2021. Poco dopo, la marcia iniziò.

La tempesta su Capitol Hill

La folla si mosse come un’onda. Tra loro, centinaia di membri dei Proud Boys, dei Three Percenters, di QAnon. Molti indossavano abiti militari, elmetti, giubbotti antiproiettile. Le bandiere di Trump si mescolavano a quelle americane.
Quando la polizia cercò di contenere l’assalto, la situazione degenerò rapidamente. Le barriere furono abbattute, le finestre infrante, gli agenti sopraffatti. All’interno del Campidoglio, senatori e deputati furono costretti a rifugiarsi.
In poche ore, il cuore della democrazia americana era caduto nelle mani di una folla che urlava “Stop the steal!” e “Fight for Trump!”.
Uno dei volti simbolo di quel caos fu Jake Angeli, il “QAnon Shaman”, con il volto dipinto e il copricapo di pelliccia e corna. Vagava tra i banchi del Senato come in un rituale tribale. In altri uffici, uomini come Tim Gionet — noto come “Baked Alaska” — si filmavano mentre occupavano scrivanie e stanze del Congresso.

L’indagine e le accuse

La Commissione d’inchiesta istituita dal Congresso ricostruì nei mesi successivi i retroscena dell’assalto. Le testimonianze raccontarono di un presidente che, nonostante gli avvertimenti dei suoi consiglieri, aveva insistito nel diffondere accuse infondate di brogli.
Secondo i membri della Commissione, il tweet del 19 dicembre fu il vero “grido di battaglia” che galvanizzò le frange più radicali.
Il deputato Jamie Raskin lo definì “il momento di svolta”: “Quel messaggio – disse – fu la sirena che chiamò a raccolta gli estremisti di estrema destra, trasformando la protesta in insurrezione”.
Durante le audizioni emerse anche un altro dettaglio inquietante: Trump avrebbe tentato di contattare un testimone della Commissione, spingendo i membri del Congresso a segnalare il possibile tentativo di condizionamento alla giustizia.

L’eco di un Paese diviso

Mentre il Congresso raccoglieva testimonianze e prove, Trump respingeva ogni accusa. Sul suo social, Truth Social, definì la Commissione “un gruppo di politicanti e truffatori”, ribadendo che le elezioni del 2020 erano “una farsa”.
Nonostante le immagini del caos e le prove raccolte, milioni di americani continuarono a credere nella sua versione dei fatti. La spaccatura politica e culturale del Paese apparve più profonda che mai.
Nel frattempo, alcuni dei protagonisti di quella giornata vennero condannati per “cospirazione sediziosa”, un reato raramente contestato negli Stati Uniti. Ma per molti, il 6 gennaio resta ancora un trauma aperto, un punto di non ritorno nella fiducia verso le istituzioni.

L’eredità del tweet di Trump

A distanza di anni, quel messaggio resta un simbolo del potere – e del pericolo – della comunicazione diretta dei leader politici attraverso i social. Un tweet di venti parole riuscì a mobilitare migliaia di persone, a spostare la rabbia virtuale nel mondo reale, a minacciare l’ordine democratico.
Oggi Trump accusa i media, e in particolare la BBC, di aver manipolato i suoi video per far sembrare che avesse incitato la folla. Ma le sue stesse parole, scritte nero su bianco, raccontano un’altra storia: quella di un presidente che scelse la strada della sfida, alimentando una tensione che sfociò nella violenza.

Tags: ApprofondimentoDonald Trump

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