Congelare oggi la propria fertilità per decidere domani se e quando diventare madri. Il cosiddetto social freezing è una pratica sempre più discussa perché incrocia scienza, biografia personale ed etica, offrendo alle donne una nuova opzione di pianificazione riproduttiva. Non si tratta di una garanzia di maternità futura, ma di uno strumento che amplia il ventaglio delle possibilità, soprattutto in un contesto sociale in cui lavoro, stabilità economica e relazioni spesso non coincidono con i tempi biologici.
Che cos’è davvero il social freezing?
Con l’espressione social freezing si indica la crioconservazione programmata degli ovociti, una procedura che consente di preservare la capacità riproduttiva congelando i propri gameti quando sono ancora biologicamente “giovani”. Dopo cicli di stimolazione ovarica, gli ovociti maturi vengono prelevati e conservati a bassissime temperature in azoto liquido all’interno di biobanche specializzate. In questo modo possono restare invariati anche per molti anni.
Quando la donna decide di tentare una gravidanza, gli ovociti vengono scongelati e fecondati in vitro con un gamete maschile, proveniente dal partner o da un donatore, fresco o a sua volta crioconservato. L’embrione ottenuto viene poi trasferito nell’utero. Questo percorso rende possibile una gravidanza anche in fasi della vita in cui la fertilità naturale si è ridotta in modo significativo.
Una pratica ancora poco diffusa in Italia
In Italia la conservazione degli ovociti è disponibile sia nei centri di Procreazione medicalmente assistita di secondo e terzo livello accreditati dal Servizio sanitario nazionale, sia in numerose strutture private. È accessibile non solo per ragioni mediche, ma anche per motivazioni non sanitarie. Nonostante ciò, il ricorso alla crioconservazione a fini “sociali” resta limitato.
Come ricorda la professoressa Eleonora Porcu, ginecologa e docente all’Università di Bologna, la conoscenza di questa possibilità tra la popolazione generale è ancora insufficiente. I dati più recenti mostrano che, a fronte di oltre undicimila bambini nati da PMA nel 2020, poco più di tremila sono nati da ovociti scongelati dal 2005 in poi. Il registro dell’Istituto Superiore di Sanità non distingue le motivazioni alla base della crioconservazione, ma è evidente che le indicazioni mediche restano prevalenti rispetto a quelle sociali.
Quando la crioconservazione è una necessità medica
Molte donne si avvicinano alla conservazione degli ovociti per tutelare la fertilità prima di affrontare cure o condizioni che potrebbero comprometterla. È il caso dei trattamenti oncologici, di alcune malattie autoimmuni o del sangue, dell’endometriosi, del rischio di menopausa precoce o della presenza di mutazioni genetiche come BRCA1 e BRCA2, associate a un aumento significativo del rischio di tumori al seno e alle ovaie.
In queste situazioni, interventi chirurgici preventivi o terapie aggressive possono ridurre drasticamente le possibilità di concepimento. La crioconservazione diventa allora una strategia di protezione, che consente di mantenere aperta l’opzione di una maternità biologica futura.
Le motivazioni “sociali” dietro la scelta
Accanto alle indicazioni cliniche, esistono motivazioni legate alla sfera personale, professionale ed economica. Il social freezing viene scelto da donne che non hanno un partner, che desiderano completare un percorso di studi o consolidare la propria carriera, oppure che preferiscono rimandare la maternità in attesa di una maggiore stabilità complessiva. In altri casi, la decisione nasce dalla volontà di non precludersi la possibilità di avere figli in futuro, considerando l’età come un fattore critico.
Si tratta di scelte profondamente individuali, che riflettono biografie e contesti diversi, e che difficilmente possono essere ricondotte a un unico modello.
Al posto di social freezing sarebbe meglio parlare di “crioconservazione pianificata”
Sebbene il termine social freezing sia ormai entrato nel linguaggio comune, molti esperti suggeriscono di utilizzare l’espressione “crioconservazione pianificata degli ovociti”, o CPO. Questa definizione è più neutra e aiuta a evitare semplificazioni o giudizi impliciti sulle motivazioni alla base della scelta.
Le questioni etiche fondamentali, infatti, sono comuni a tutte le forme di crioconservazione, indipendentemente dal motivo che le ha rese necessarie. Inoltre, l’etichetta “sociale” rischia di sminuire decisioni che, per molte donne oltre i trent’anni, rappresentano una risposta concreta a una condizione biologica non volontaria come il declino della fertilità.
Le questioni bioetiche aperte
La crioconservazione degli ovociti solleva interrogativi complessi, che riguardano la sicurezza delle tecniche, il rispetto dell’autonomia riproduttiva, il destino degli ovociti non utilizzati e il rischio di nuove pressioni sociali sulle scelte di maternità. A ciò si aggiungono le diseguaglianze di genere e socio-economiche nell’accesso alle procedure e le riflessioni sul posticipo della genitorialità oltre i limiti biologici naturali.

Il Comitato Etico di Fondazione Veronesi ha analizzato questi aspetti sottolineando anche le implicazioni per la salute delle madri e dei bambini, oltre alle questioni di giustizia tra generazioni.
Il social freezing è un passo avanti per l’autonomia riproduttiva?
La CPO amplia in modo significativo l’autonomia delle donne, consentendo di posticipare la maternità senza rinunciare al legame biologico con il futuro figlio. Contribuisce inoltre a ridurre alcune asimmetrie tra uomini e donne legate alla diversa durata della finestra fertile e permette di evitare, in certi casi, il ricorso a ovociti donati.
Come sottolinea Eleonora Porcu, gli ovociti appartengono esclusivamente alla donna, mentre gli embrioni sono della coppia. Crioconservare i gameti significa quindi non dipendere dal consenso di un partner, a differenza di quanto avviene con gli embrioni. Anche alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale che tutela il diritto della madre in caso di conflitto con l’ex partner, diventa fondamentale promuovere informazione e autoconsapevolezza.
Una decisione che deve essere informata
La scelta di congelare e utilizzare i propri ovociti spetta unicamente alla donna. I professionisti sanitari hanno il compito di fornire informazioni complete e corrette, evitando atteggiamenti paternalistici e favorendo decisioni libere e consapevoli. In prospettiva, la diffusione della CPO potrebbe anche aumentare la disponibilità di ovociti donati per la PMA eterologa, sostenendo percorsi di genitorialità di altre donne, coppie omogenitoriali maschili o persone single.
Rischi e sicurezza per madre e bambino
Congelare ovociti in giovane età consente di ridurre il rischio di anomalie cromosomiche legate all’età dell’ovocita, più che a quella anagrafica della donna al momento della gravidanza. Gli studi mostrano che gli embrioni ottenuti da ovociti vitrificati presentano tassi di fertilizzazione, impianto e nascita sovrapponibili a quelli ottenuti da donatrici sane, senza un aumento di anomalie congenite.
Restano tuttavia da approfondire gli effetti sul lungo periodo, mentre non vanno sottovalutati i rischi legati a gravidanze in età avanzata, che possono comportare maggiori complicanze ostetriche e perinatali.
L’età conta più di quanto si pensi
L’età ideale per crioconservare gli ovociti è entro i 35 anni. Dopo questa soglia, la qualità e la quantità dei gameti diminuiscono rapidamente. L’accesso alla PMA, inoltre, varia a livello regionale: in alcune aree il limite massimo è fissato a 42 anni, in altre arriva a 50.
Molte donne si rivolgono ai centri PMA quando hanno già superato i 40 anni, spesso sottovalutando il declino fisiologico della fertilità femminile, che accelera dopo i 32 e ancor più dopo i 37 anni. È fondamentale ricordare che la crioconservazione non offre certezze, ma solo una probabilità ragionevole di successo.
Quali sono i tassi di successo reali del social freezing?
Il successo della fecondazione assistita con ovociti crioconservati dipende da diversi fattori: età al momento del prelievo, numero di ovociti e riserva ovarica. I dati indicano che, se gli ovociti sono stati conservati prima dei 35 anni, l’utilizzo di 24 ovociti può portare a un tasso cumulativo di nascita superiore al 90%, mentre con 10-15 ovociti si arriva a circa l’85%.
La probabilità di ottenere una nascita per ogni ovocita scende in modo significativo oltre i 35 anni, a dimostrazione del fatto che il social freezing non elimina i limiti biologici, ma può solo attenuarli.
Non rimandare a ogni costo
Secondo il Comitato Etico di Fondazione Veronesi, la crioconservazione degli ovociti è eticamente lecita e dovrebbe essere maggiormente promossa per ampliare l’autonomia riproduttiva e ridurre le diseguaglianze di genere. Tuttavia, non dovrebbe trasformarsi in una soluzione sistematica per rimandare la maternità a causa di carenze strutturali, come la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia.
La possibilità di congelare gli ovociti è una risorsa preziosa, ma non può sostituire politiche sociali e lavorative che permettano alle donne di scegliere se e quando diventare madri senza essere costrette a farlo contro il proprio orologio biologico.
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