Il dibattito sul referendum confermativo della riforma Nordio riporta inevitabilmente alla mente il voto del 2016 sulla revisione costituzionale proposta da Matteo Renzi. Ma, almeno secondo Ignazio La Russa, non esiste una vera analogia tra i due momenti politici. Il presidente del Senato, durante l’incontro con la Stampa parlamentare, ha sottolineato come l’esito della consultazione sulla giustizia non potrà generare scossoni istituzionali paragonabili a quelli che portarono alle dimissioni del premier di allora. Renzi – ha ricordato – decise di legare volontariamente la propria sorte al risultato del referendum, personalizzando l’intera campagna. Il governo attuale, invece, sta seguendo un’impostazione opposta, evitando di trasformare il voto in un giudizio politico sull’esecutivo.
Il paragone con il 2016 e la posizione di La Russa
La Russa ha insistito sul fatto che ogni elezione comporti inevitabilmente qualche ripercussione politica, ma senza l’intensità vissuta quasi 10 anni fa. Il presidente del Senato ha ironizzato sullo scenario contrario: se al referendum dovesse vincere il fronte governativo, dovrebbero dimettersi Conte o Schlein? Una prospettiva che, a suo giudizio, nessuno prenderebbe in considerazione.

Per La Russa resta centrale la distinzione tra scelte istituzionali e strategie personali, e l’attuale premier non ha mai voluto caricare la riforma costituzionale di un significato che vada oltre il merito del provvedimento.
La strategia dell’esecutivo: depoliticizzare il referendum
Nel centrodestra la parola d’ordine è evitare qualunque forma di personalizzazione del referendum. La scelta di tenere il voto tra marzo e aprile, lontano dalle comunali di giugno, mira a disinnescare l’effetto trascinamento dei grandi centri urbani, tradizionalmente più favorevoli al centrosinistra. Isolare la consultazione permette inoltre di intercettare meglio i consensi degli elettori più moderati, che potrebbero sostenere la separazione delle carriere senza sentirsi coinvolti in una battaglia identitaria.
L’obiettivo dichiarato è mantenere il confronto sul piano tecnico, difendendo la riforma Nordio dalle critiche di opposizioni che parlano di squilibrio dei poteri e attacco alla Costituzione. Una strategia che punta a spogliare il referendum di ogni carica emotiva, trasformandolo in un voto sulla funzionalità del sistema giudiziario.
Il coinvolgimento di Meloni sembra inevitabile
Pur senza voler ripetere l’errore di Renzi, per Giorgia Meloni sarà complesso non intervenire in prima persona su una riforma che tocca uno dei temi più sensibili del suo programma. La premier è già finita più volte al centro dello scontro con la magistratura, dai provvedimenti sul trasferimento dei migranti in Albania alla recente bocciatura del progetto del Ponte sullo Stretto da parte della Corte dei conti. Meloni ha definito quella decisione un’ingerenza inaccettabile, ribadendo che la riforma della giustizia e della Corte dei conti rappresenti la risposta più adeguata.

Un’eventuale bocciatura al referendum costituirebbe comunque un segnale politico dopo tre anni di consenso stabile: difficilmente verrebbe interpretata come irrilevante, anche se l’esecutivo nega qualsiasi rischio diretto per la sua tenuta. Non a caso La Russa, pur sostenendo la separazione delle funzioni, ha lasciato intendere alcune perplessità sulla portata complessiva della riforma, ricordando come il passaggio da una carriera all’altra sia già oggi piuttosto complesso.
Le incognite nel campo dell’opposizione
Sul fronte opposto, il timore di molti nel Pd è che la segretaria Elly Schlein finisca nuovamente trascinata in un confronto frontale, spinta dal M5s e dalla Cgil verso un’altra battaglia ad alta tensione. La segretaria dem avrebbe preferito restare concentrata sui contenuti e non polarizzare lo scontro sul referendum, ma la dinamica politica rischia di superare le cautele interne.
Il contesto, inoltre, è cambiato notevolmente rispetto ai tempi di Tangentopoli: l’opinione pubblica guarda alla magistratura con occhi diversi, come confermato anche dai sondaggi. A differenza del 2016, non esiste quorum: vince chi porta più persone alle urne. Per il Pd una sconfitta avrebbe effetti diretti sulla leadership di Schlein, riaprendo tensioni interne e rafforzando chi la considera vulnerabile nella guida del campo progressista.
Calenda, Renzi e l’assenza del centro moderato nel fronte del No
Ulteriore elemento di complicazione per le opposizioni è la mancanza di compattezza sul referendum. Carlo Calenda sostiene apertamente la separazione delle carriere e voterà Sì. Matteo Renzi, pur favorevole alla riforma sul piano tecnico, ha scelto l’astensione per motivi politici legati ai rapporti con il Pd in vista delle elezioni del 2027. Una scelta che nei fatti si traduce in libertà di voto, lasciando il fronte del No privo del sostegno del centro riformista.

Le perplessità di Renzi riguardano soprattutto il sorteggio per la scelta dei membri del Csm, ma la decisione di non schierarsi appare mirata a non lacerare l’alleanza potenziale con Schlein. Una posizione che rende ancora più fragile l’opposizione, già attraversata da distinguo interni.
Divisioni nel Pd sul referendum
Le crepe più evidenti emergono proprio nel Partito Democratico. Figure come Vincenzo De Luca e Goffredo Bettini si sono espresse apertamente in favore della separazione delle carriere. Anche una parte dei riformisti dem ha manifestato dubbi, ricordando che il tema era presente nella mozione Martina del congresso 2019. Persino l’area liberal di LibertàEguale si colloca sul fronte del Sì, con personalità come Enrico Morando, Stefano Ceccanti, Giorgio Tonini e Claudia Mancina.
Se il referendum dovesse premiare la riforma, le conseguenze interne al Pd sarebbero inevitabili: l’ala critica tornerebbe a chiedere conto a Schlein della strategia adottata, mettendo a rischio la sua capacità di guidare un fronte progressista già fragile.
Il referendum può ridefinire gli equilibri politici
Il voto tra marzo e aprile rischia quindi di avere un impatto più rilevante di quanto il governo voglia riconoscere. Pur senza il livello di personalizzazione del 2016, il referendum sulla giustizia potrebbe trasformarsi in un test politico sia per Palazzo Chigi sia per le opposizioni. La distanza dal precedente renziano resta, ma la possibilità di un effetto boomerang – in un senso o nell’altro – non può essere del tutto esclusa.
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