Quando Mauro Berruto ha accettato l’invito del Comitato Olimpico Palestinese, pensava di trascorrere pochi giorni in palestra, da allenatore.
Non immaginava che quell’esperienza si sarebbe trasformata in una delle testimonianze più forti della sua vita.
L’ex CT della Nazionale italiana maschile di volley – oggi deputato del Partito Democratico – è diventato commissario tecnico della nazionale palestinese, lavorando a Ramallah con atleti che ogni giorno fanno i conti con confini chiusi, permessi negati e villaggi sigillati.
Un’esperienza che lui stesso definisce ai microfoni di Newzgen senza esitazioni: “Ho sfogliato un manuale di apartheid”.
“Sono partito per un gesto di solidarietà. In Palestina tutto ciò che fai è ossigeno”
La missione nasce dopo la morte di Majed Abu Maraheel, primo atleta olimpico palestinese, morto perché impossibilitato a raggiungere l’Egitto per curarsi.
Da quel lutto, il contatto con il Comitato Olimpico Palestinese e la richiesta di tornare ad allenare, anche solo per qualche giorno.
«Avevo detto che lo avrei fatto simbolicamente, ma lì la parola non esiste: ogni gesto, ogni allenamento, è ossigeno. È un modo per dire al mondo che la Palestina esiste» racconta Berruto.
“Tre atleti non sono riusciti a raggiungere Ramallah. Due non sono più potuti tornare a casa”
In Cisgiordania, Berruto ha visto ciò che definisce “molto peggiore di quanto immaginasse”.
Villaggi chiusi dall’esercito senza preavviso. Atleti bloccati per giorni.
Allenamenti che diventano impossibili da organizzare.
«Tre ragazzi non sono mai arrivati in palestra perché i loro villaggi erano stati chiusi. Due, alla fine dell’allenamento, non hanno potuto nemmeno fare rientro a casa. Questa è la loro quotidianità» spiega.
“Distruggere lo sport significa cancellare l’identità di un popolo”
Per Berruto, l’attacco alle infrastrutture sportive non è un “effetto collaterale”, ma parte di una strategia.
Il 95% degli impianti sportivi palestinesi risulta danneggiato o inutilizzabile.
Campi distrutti, palestre inagibili, atleti impossibilitati a spostarsi.
«Lo sport è un momento collettivo, un luogo dove si costruisce identità. Cancellarlo significa cancellare un popolo» afferma il CT.
Lo sport come voce, resistenza e pressione internazionale
Da allenatore e politico, Berruto vede nello sport uno strumento che può ancora accendere i riflettori sulla Cisgiordania, oggi quasi scomparsa dal dibattito pubblico dopo il cessate il fuoco a Gaza.
«La prima cosa è raccontare. Tenere la luce accesa. La Cisgiordania rischia di diventare una seconda Gaza» avverte.
La sua idea è lavorare su due fronti:
progetti di accesso allo sport per i giovani palestinesi
pressione internazionale, perché lo sport possa avere un ruolo politico chiaro
«La Carta Olimpica viene violata ogni giorno. Se un Paese viene bannato da FIFA o UEFA, si accende una lampadina. Lo sport semplifica il messaggio e obbliga il mondo a guardare ciò che accade» spiega.
“Lo sport non risolve tutto, ma dà speranza. E questo popolo ne ha bisogno”
La missione di Berruto in Cisgiordania si chiude con un convincimento netto: lo sport non può fermare un conflitto, ma può creare futuro, ridare coraggio, aiutare a resistere.
E soprattutto, può raccontare storie che non devono essere dimenticate.
