La tregua non ha portato la pace. A Gaza, la guerra si è trasformata in un’agonia quotidiana fatta di attese, silenzi e mancanza di prospettive. Sami Abu Omar, cooperante palestinese residente nella Striscia da trent’anni, descrive ai microfoni di Newzgen un territorio sospeso tra la sopravvivenza e la disperazione, dove “nemmeno un sacco di cemento è entrato” e dove la parola “ricostruzione” resta, per ora, una formula senza contenuto.
“L’80% delle case è stato distrutto. Le famiglie vivono nelle tende, in mezzo alle macerie. L’acqua potabile si ottiene solo dopo due ore di fila, e gli ospedali funzionano a un terzo della loro capacità“, racconta. Dalla fine dei bombardamenti, la situazione umanitaria non è migliorata: l’embargo continua, i valichi restano in gran parte chiusi, e i beni di prima necessità arrivano col contagocce.
Un assedio che non conosce tregua
Nella Striscia entrano soltanto pochi generi alimentari di base – lenticchie, riso, farina – e quantità minime di carburante. Il resto, compresi frutta, verdura e carne, passa attraverso canali privati, a prezzi che pochi possono permettersi. “Non c’è un flusso libero di aiuti. Tutto è ancora bloccato come durante la guerra“, spiega Abu Omar, che collabora con diverse organizzazioni non governative internazionali.
Il bilancio infrastrutturale è catastrofico: oltre il 60% degli ospedali risulta danneggiato o distrutto, i sistemi idrici compromessi, le scuole ridotte a rifugi. La ricostruzione, sottolinea, “non è nemmeno iniziata”. E l’idea di un ritorno alla normalità sembra appartenere a un futuro remoto: “Ci vorrebbero almeno vent’anni, a patto che cessino i bombardamenti e che si aprano i corridoi per i materiali da costruzione”.
Sami Abu Omar e una speranza flebile
A Gaza oggi domina una forma di disillusione politica profonda. «La popolazione si sente prigioniera di decisioni prese altrove», osserva Abu Omar. “La nostra storia è quella di un popolo la cui sorte è sempre stata decisa da altri: ottomani, britannici, egiziani, giordani. Non abbiamo mai avuto una vera autodeterminazione“.
Anche il rapporto con Hamas è cambiato. L’organizzazione islamista, che per anni aveva goduto di un consenso significativo, ha perso gran parte del sostegno popolare. “Dopo il 7 ottobre, più del 70% dei palestinesi non appoggia più Hamas“, spiega. “Molti la considerano la principale causa del disastro: non tanto per i bombardamenti, quanto per le scelte che hanno trascinato Gaza nella distruzione totale“.
Il futuro dei giovani e lo sguardo oltre il muro
Il senso di smarrimento è particolarmente forte tra i giovani. “Prima del conflitto, i miei figli volevano restare. Oggi tutti vogliono partire“, confida Abu Omar. La disoccupazione sfiora il 50%, e la vita quotidiana è segnata da blackout, scarsità di cibo e incertezza. “Eppure, se ci fosse un accordo di pace stabile e la prospettiva di una vita dignitosa, molti resterebbero. Non si fugge per mancanza d’amore verso la propria terra, ma per mancanza di futuro“.
Dall’altra parte del Mediterraneo, le manifestazioni pro-Palestina organizzate in Europa vengono seguite con partecipazione e gratitudine. “Sapere che in Italia e in altri Paesi la gente scende in piazza per chiedere il rispetto dei diritti umani ci dà forza. È la prova che non siamo completamente dimenticati“.
La fatica del ritorno alla vita
Gaza appare oggi come una città cancellata e ricostruita solo nella memoria dei suoi abitanti. La tregua, più che un punto di svolta, è una sospensione di sofferenza. Gli aiuti internazionali restano scarsi, frammentati, spesso ostacolati dalle tensioni politiche tra Israele, Autorità Palestinese e Hamas.
“La speranza è flebile“, conclude Abu Omar. “Perché non basta ricostruire i muri: bisogna ricostruire la fiducia. E quella, in mezzo alle macerie, è la cosa più difficile“.






