La crisi climatica sta raggiungendo un punto in cui perfino i mammiferi del deserto, creature simbolo della resilienza biologica, rischiano di non farcela più. Lo rivelano gli scienziati dell’Università La Sapienza di Roma, che hanno analizzato le condizioni di sopravvivenza di decine di specie nella Penisola Arabica, una delle aree più calde del pianeta. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Global Ecology and Biogeography, indica un rischio impressionante: fino al 93% dei mammiferi desertici potrebbe trovarsi in condizioni critiche entro i prossimi decenni, incapace di tollerare ulteriori aumenti di temperatura. L’immagine del deserto come luogo vuoto e immobile è ormai superata: dietro le dune vive un patrimonio di adattamenti biologici unici, costruiti in migliaia di anni. Ma ora questo equilibrio si sta spezzando.
Una volpe del deserto, un orice, i piccoli roditori che emergono solo di notte per non sprecare acqua e calore: animali scolpiti dall’evoluzione per sopravvivere dove quasi nulla sopravvive. Eppure persino loro oggi vacillano. Il problema non è soltanto il caldo, ma la velocità con cui cresce. Quando un clima cambia più in fretta dell’evoluzione, nessuna strategia naturale è abbastanza rapida da compensarlo.

Mammiferi ai limiti della fisiologia: il Rub’ al-Khali diventa un laboratorio dell’estinzione
Nel cuore della Penisola Arabica si estende il Rub’ al-Khali, il più grande deserto sabbioso del mondo, una distesa che sembra infinita e che rappresenta un test vivente di ciò che potrebbe accadere su larga scala. Qui, le temperature raggiungono valori estremi, diventando un banco di prova naturale per gli organismi più resistenti del pianeta. Proprio in questo ambiente, la squadra di ricerca guidata da Chiara Serafini del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza, ha osservato che molte specie vivono già oggi a contatto con la loro soglia termica massima. Si tratta di una condizione che non lascia margini: bastano pochi gradi in più per rompere il meccanismo che consente loro di mantenere la temperatura corporea entro limiti vitali.
Gli animali del deserto, come l’orice arabo o la volpe delle sabbie, hanno sviluppato soluzioni incredibili: orecchie grandi per disperdere il calore, metabolismi lenti, capacità di concentrare l’urina per non perdere acqua, e persino meccanismi che permettono di mantenere la temperatura corporea più alta rispetto ai mammiferi di altri ecosistemi. Ma tutto questo potrebbe non bastare più. Secondo i ricercatori, perfino le specie che sembravano immortali davanti al sole rischiano ora di cedere. Superata una soglia fisiologica, l’organismo non riesce più ad espellere calore, i sistemi di raffreddamento biologici collassano, e persino l’attività notturna, tradizionale strategia di sopravvivenza, non diventa più sufficiente quando anche le notti restano bollenti.
In passato, l’allarme principale era rivolto alle specie montane, considerate tra le più vulnerabili ai cambiamenti climatici perché non possono spostarsi più in alto, verso temperature più fresche. Oggi però il quadro scientifico cambia: secondo Luigi Maiorano, co-autore dello studio, potrebbero essere invece proprio gli animali del deserto a trovarsi nella condizione più drammatica. Perché non hanno luoghi dove migrare. Non esiste “più caldo di così” da cui scappare, e in molti casi le aree limitrofe sono già troppo aride o antropizzate per offrire rifugio. Il deserto, cioè, diventa una gabbia termica.
Evoluzione in ritardo, caldo in anticipo: una perdita che va oltre la biodiversità
Se queste specie sparissero, non perderemmo solo icone della natura selvaggia. Perderemmo un archivio biologico irripetibile. La sparizione della fauna desertica cancellerebbe i segreti evolutivi di organismi capaci di vivere con pochissima acqua, sotto irraggiamenti solari estremi, in condizioni che nessun’altra forma di vita superiore tollera. Il contributo che questa conoscenza potrebbe offrire alla scienza — persino alla medicina, alla bioingegneria, alla resilienza umana in ambienti estremi — rischia di dissolversi prima che si riesca a capirlo fino in fondo. Una “manciata di secoli”, osservano i ricercatori, potrebbe bastare a cancellare adattamenti nati in millenni di evoluzione.
E non è solo una questione ecologica o accademica. È un tema culturale, etico, persino simbolico. Il deserto ha sempre rappresentato il limite estremo del pianeta, il luogo dove la vita dimostrava di poter resistere a tutto. Se perfino qui la natura cede, significa che il cambiamento climatico ha superato una soglia psicologica prima ancora che biologica. Quella che pensavamo fosse la frontiera invalicabile della sopravvivenza animale ora sta cedendo. E questo racconta molto anche sul destino della nostra specie.






