Quando uscì nelle sale nel 1999, Il Sesto Senso cambiò per sempre la carriera di M. Night Shyamalan, trasformandolo da promessa del cinema a regista di culto internazionale. La pellicola, capace di incassare centinaia di milioni di dollari e ottenere sei candidature agli Oscar – tra cui Miglior film, Miglior regia e Miglior sceneggiatura originale – divenne il manifesto di un certo tipo di cinema: quello che gioca con la percezione dello spettatore fino all’ultimo istante. Il cosiddetto Shyamalan twist, il ribaltamento finale che costringe a rivedere ogni scena alla luce di una verità nascosta, è nato proprio qui.
Eppure, a distanza di oltre venticinque anni, emerge un’interpretazione che ribalta il mito stesso del film: il regista non avrebbe mai davvero celato la rivelazione centrale. Al contrario, avrebbe scelto di mostrarla subito, nelle prime inquadrature, mascherandola non con omissioni grossolane, ma sfruttando le aspettative del pubblico. Un gioco di prestigio narrativo che, col senno di poi, era sotto gli occhi di tutti.
L’indizio iniziale che tutti abbiamo ignorato
La trama è nota: lo psicologo Malcolm Crowe (interpretato da Bruce Willis) cerca di aiutare il piccolo Cole Sear (Haley Joel Osment), un bambino che sostiene di vedere le anime dei defunti. La celebre frase «Vedo la gente morta» è diventata un’icona pop, ma ciò che ha reso memorabile il film è il colpo di scena finale: Malcolm è lui stesso un fantasma, morto fin dall’inizio della storia.
La sequenza che apre il film contiene già la soluzione. Crowe rientra a casa con la moglie Anna (Olivia Williams) e trova un ex paziente armato. Lo sparo, il volto di lui sorpreso, la moglie che si china verso di lui. Poi, improvvisamente, il buio. Nessuna ambulanza, nessun rumore di soccorso, nessuna corsa in ospedale. Solo il silenzio, seguito dal titolo e da un salto temporale. In qualunque altro film, un evento del genere sarebbe seguito da concitazione e spiegazioni. Qui, invece, Shyamalan taglia via il “dopo” perché quel dopo non esiste: Crowe è già morto. Ma lo spettatore, abituato a vedere il mistero svelarsi alla fine, non collega i puntini.

Come il regista ha usato le nostre aspettative contro di noi
Il resto della pellicola gioca con una regia che isola il protagonista senza mai mostrarlo in interazioni dirette con altri personaggi, eccetto Cole. La moglie non gli rivolge la parola, i commensali nei locali non lo guardano, eppure noi continuiamo a pensare che sia vivo. Perché? Perché il nostro cervello trova spiegazioni alternative: un matrimonio in crisi, il dolore per l’episodio iniziale, la difficoltà a comunicare.
Shyamalan sfrutta un principio semplice: non negare mai la verità, ma costruire una narrazione che la renda meno probabile di altre interpretazioni emotive. Il regista non imbastisce menzogne, ma orchestra la messa in scena in modo che la spiegazione più ovvia sembri quella meno credibile. È un approccio che anticipa ciò che farà in altri suoi film, da The Village a The Others (di Alejandro Amenábar, uscito due anni dopo e spesso accostato a Il Sesto Senso).
Rivederlo oggi cambia tutto
Conoscere la verità già dall’inizio modifica radicalmente l’esperienza della visione. Ogni inquadratura diventa una conferma, ogni dialogo non detto un indizio. La distanza della moglie non è più solo emotiva, ma fisica e ontologica: lei non può parlargli perché lui non è più nel mondo dei vivi. Le scene in cui Cole osserva Malcolm assumono una profondità diversa: il bambino è l’unico a poterlo vedere e interagire con lui, un privilegio che lo isola ulteriormente da tutti gli altri personaggi.
Questa consapevolezza rivela l’abilità registica di Shyamalan: non un trucco da prestigiatore, ma un raffinato esercizio di manipolazione percettiva, costruito su tempi, silenzi e dettagli apparentemente innocui. La scelta di non “nascondere” ma di lasciare che il pubblico si nasconda da solo la verità è ciò che rende il film ancora oggi un punto di riferimento per chi studia sceneggiatura e regia.
Riguardare oggi Il Sesto Senso con questa chiave di lettura non è solo un’esperienza nostalgica, ma un esercizio di analisi cinematografica. Ci ricorda che il linguaggio del cinema non si limita a mostrare o raccontare: può insinuare, suggerire, deviare. Shyamalan lo sapeva bene, e lo dimostrò già allora, firmando un’opera che non ha mai smesso di essere dissezionata, discussa e ammirata. A 26 anni dalla sua uscita, quel colpo di scena non ha perso forza: semplicemente, ora possiamo apprezzare anche la sottile arte con cui ci è stato messo davanti fin dall’inizio.






