Nel cuore di vari laboratori internazionali stanno nascendo i primi biocomputer, piccoli sistemi formati da neuroni umani coltivati in vitro che riescono a rispondere a stimoli elettrici, riconoscere schemi semplici e generare segnali interpretabili dai software. L’idea nasce da un problema sempre più urgente: l’enorme richiesta energetica dell’intelligenza artificiale, con data center che arrivano a consumare fino a 10 megawatt, mentre il cervello umano lavora con appena 20 watt. Da qui la corsa a capire se strutture biologiche possano svolgere alcuni compiti in modo più efficiente.
Come vengono creati e cosa riescono già a fare
Il processo parte da normali cellule della pelle, che vengono riportate a uno stadio simile alle staminali e poi trasformate in cellule nervose. I neuroni si organizzano in piccoli organoidi tridimensionali, spesso definiti “mini-brain”, anche se sono strutture molto più semplici del cervello umano e prive di vasi sanguigni o aree specializzate. Per dialogare con i computer vengono appoggiati su una matrice di micro-elettrodi che inviano impulsi e registrano le risposte, convertite poi in dati dagli algoritmi.
Oggi questi sistemi vengono usati soprattutto nella ricerca neurologica, per osservare come reagiscono i neuroni a farmaci e sostanze tossiche, o per simulare alcune patologie come epilessia e disturbi dello sviluppo. Ma stanno emergendo anche applicazioni più curiose. Un team dell’Università di Bristol ha mostrato che reti di circa 10mila neuroni possono riconoscere le lettere del Braille, migliorando la precisione quando il numero sale a 30mila. La società australiana Cortical Labs ha addestrato organoidi a giocare a Pong, dimostrando che possono imparare attraverso premi e penalità elettriche, e ha già messo in vendita un biocomputer per laboratori.

Altri gruppi, come quello dell’Università della California a San Diego, stanno sperimentando organoidi più grandi per usarli come sensori ambientali, capaci di reagire ai cambiamenti in caso di sostanze inquinanti. Intanto la svizzera FinalSpark ha creato una piattaforma che permette a università e aziende di affittare organoidi online, come se fossero server biologici.
Perché la tecnologia è promettente ma ancora molto fragile
Nonostante i risultati iniziali siano stimolanti, i biocomputer restano lontani da un impiego pratico. Il primo limite è la dimensione: le reti neuronali utilizzate contano poche centinaia di migliaia di cellule, contro gli 86 miliardi del cervello umano. Il secondo riguarda la durata, perché gli organoidi sopravvivono solo alcuni mesi: senza vasi sanguigni, le cellule più interne non ricevono nutrienti sufficienti e si deteriorano. Anche la stabilità elettrica è un problema importante: man mano che maturano, i neuroni cambiano comportamento e le risposte diventano meno prevedibili.
A questo si aggiunge la forte variabilità: ogni organoide è diverso dagli altri e reagisce in modo non replicabile, rendendo difficile costruire sistemi affidabili. I costi restano molto alti, non solo per le tecnologie necessarie ma per la manutenzione quotidiana delle colture cellulari.
Secondo molti esperti, la strada è affascinante e merita attenzione, ma le basi biologiche sono ancora troppo fragili per immaginare biocomputer in grado di sostituire, anche in parte, le architetture digitali tradizionali. Per ora rappresentano soprattutto un nuovo strumento di ricerca che permette di esplorare l’intersezione tra biologia e calcolo, una frontiera che nei prossimi anni potrebbe aprire scenari oggi difficili da prevedere.






