Un carcere che non sembra un carcere. A Mariefred, cittadina tranquilla sul lago Mälaren, a un’ora da Stoccolma, esiste una prigione che sovverte ogni stereotipo europeo: niente mura alte, niente sbarre visibili, nessun cancello blindato. Eppure funziona, e i detenuti che ci vivono hanno meno probabilità di tornare a delinquere rispetto alla media europea.
A chi arriva da Paesi come l’Italia, il carcere di Mariefred può apparire quasi irreale. Le strutture basse, immerse nel verde, sono distribuite lungo vialetti ordinati e silenziosi. Nessuna torre di guardia, nessuna recinzione a vista. Le finestre sono ampie, con grate interne discrete, e all’interno le stanze sono curate, luminose, arredate con essenzialità e dignità. Un letto in legno, una scrivania, una sedia, una piccola TV: nulla che richiami il concetto di cella nel senso tradizionale.
In Svezia, e in particolare nei Paesi nordici, il carcere è un’estensione del sistema di welfare, non una punizione fine a sé stessa. Il motto del sistema penitenziario è chiaro: “Bättre ut”, che significa “uscirne migliori”. Non è un ideale astratto, ma un principio che si riflette in ogni dettaglio della vita quotidiana nelle carceri. L’obiettivo è riabilitare chi ha sbagliato, offrire opportunità reali, e ridurre il rischio di recidiva. Un approccio che, secondo i dati, funziona davvero.

Un carcere che punta sulla dignità, non sulla paura
Il carcere di Mariefred è gestito dal Kriminalvården, l’Agenzia svedese per i servizi penitenziari e di reinserimento. Nato nel 1958 e oggi classificato come struttura di categoria due (media sicurezza), ospita 144 detenuti uomini, molti dei quali con reati legati a furti, traffico di droga, aggressioni, ma senza profili di alta pericolosità. Le stanze possono essere singole o doppie, e ogni reparto ha docce comuni e spazi condivisi.
I detenuti non vengono chiamati “prigionieri”, ma “clienti” (klient). Una scelta linguistica precisa, pensata per eliminare lo stigma e rendere chiaro che lo scopo non è annientare l’individuo, ma prepararlo a reintegrarsi nella società. «Il nostro obiettivo è che una persona, una volta uscita dalla struttura, sia in una condizione migliore rispetto a quando è entrata», ha spiegato Annika Wulff, responsabile dei rapporti con i detenuti a Mariefred.

Lavoro vero, routine umana e contatto con la famiglia
Il carcere funziona come una piccola comunità autosufficiente, con orari fissi, attività quotidiane e un forte incentivo al lavoro e alla formazione. All’interno della struttura è attivo un laboratorio di falegnameria, dove si realizzano mobili e oggetti in legno destinati a scuole e uffici pubblici. I detenuti ricevono uno stipendio mensile di circa 1.000 euro per il loro impiego, imparano un mestiere e mantengono una routine professionale.
La giornata inizia alle 7 del mattino, con colazione, e prosegue fino alle 19, alternando lavoro, formazione, tempo libero e attività all’aperto. Esiste anche un padiglione dedicato alla ricreazione, con ping pong, ceramica, scacchi e spazi per socializzare.
Particolarmente curata è la gestione delle relazioni affettive. I detenuti possono trascorrere momenti intimi con i propri partner in stanze non sorvegliate, mentre gli incontri con i figli si svolgono in ambienti appositamente pensati per non sembrare carcerari: giochi, libri, cucine e arredi familiari.
Il risultato? Meno recidiva e più reinserimento
Il modello svedese è diverso dalla maggior parte dei sistemi carcerari europei, non solo per l’aspetto visivo, ma per la filosofia che lo guida. E i dati lo confermano: in Svezia, circa il 30% degli ex detenuti torna a delinquere entro tre anni dalla scarcerazione. Una percentuale molto più bassa rispetto a Paesi come la Francia (48%) o l’Italia, dove il tasso supera il 68% nel corso della vita.
Certo, anche il sistema svedese affronta sfide: il numero dei detenuti è in crescita, le strutture iniziano a soffrire di sovraffollamento, e si sta valutando l’affitto di posti in carceri estoni. Inoltre, la carenza di personale rischia di indebolire la qualità dei programmi di reinserimento.
Eppure, Mariefred resta un simbolo forte di un’alternativa possibile. Un carcere dove la pena non è isolamento, ma responsabilità, dove la sicurezza non si misura con le sbarre, ma con la fiducia, e dove il reinserimento non è uno slogan, ma una prassi quotidiana strutturata.






