Gaza, 13 ottobre 2025 – L’entità della devastazione nella Striscia di Gaza si conferma senza precedenti, con stime aggiornate che parlano di circa 61 milioni di tonnellate di macerie prodotte dalla distruzione o dal danneggiamento di quasi il 78% degli edifici della regione. Questa cifra rappresenta un volume di detriti ben diciassette volte superiore alla somma di quelli generati da tutti i bombardamenti precedenti dal 2008 ad oggi, secondo il più recente rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep).
La complessità della rimozione delle macerie e i tempi stimati
Il compito di rimuovere e processare una tale massa di detriti appare colossale e destinato a protrarsi per decenni. Le operazioni di smaltimento si dividono in due fasi principali: la rimozione e il trasporto iniziale dei materiali, seguiti dalla lavorazione per il riciclo delle componenti idonee. Le Nazioni Unite avevano originariamente stimato che la sola rimozione richiedesse fino a 15 anni, basando i calcoli su una flotta di 105 autocarri da circa 19 tonnellate ciascuno, operanti su turni continui. Tuttavia, studi più recenti come quello di Samer Abdelnour e Nicholas Roy, pubblicato su Environmental Research: Infrastructure and Sustainability, indicano che il volume delle macerie è quasi il doppio rispetto ai dati precedenti, portando così la durata stimata di questa fase a oltre 20 anni.
A complicare ulteriormente la situazione, la rete stradale di Gaza è stata gravemente danneggiata: secondo il Centro Satellitare delle Nazioni Unite (UNOSAT), quasi un terzo delle strade della Striscia risulta almeno moderatamente compromesso, con un quarto completamente distrutto. Queste condizioni rallentano enormemente il trasporto dei detriti, che, secondo le stime, richiederà più di 2,1 milioni di carichi di autocarri, percorrendo una distanza complessiva pari a oltre 700 volte la circonferenza terrestre.
Il tallone d’Achille: la lavorazione dei detriti tra restrizioni e mancanza di macchinari
La fase successiva e più delicata riguarda la frantumazione e il trattamento dei detriti, cruciale per il riciclo e la riqualificazione del materiale. Lo studio di Abdelnour e Roy individua due scenari: quello ottimale prevede l’impiego di una flotta di 50 macchinari industriali ad alta capacità, capaci di processare 400 tonnellate di macerie all’ora, completando il lavoro in circa sei mesi. Tuttavia, tali macchinari non sono attualmente disponibili a Gaza a causa delle restrizioni imposte sull’ingresso di attrezzature pesanti e parti di ricambio, una prassi consolidata che limita fortemente la capacità di ricostruzione.
Di conseguenza, lo scenario realistico si basa su 50 frantoi più piccoli, tipici di quelli già in uso nella Striscia, che impiegherebbero fino a quaranta anni per completare lo stesso lavoro. Con l’aumento delle macerie a 61 milioni di tonnellate, questa stima si aggiorna a oltre 60 anni, una prospettiva che mette in luce le enormi difficoltà operative e le necessità di rivedere le politiche di accesso ai macchinari industriali.
Le conseguenze umane, ambientali e legali della devastazione
Un’altra drammatica dimensione riguarda le vittime ancora sepolte sotto le macerie: le Nazioni Unite stimano che almeno 12 mila corpi di civili e combattenti rimangano insepolti, rendendo la rimozione dei detriti un’operazione estremamente delicata che richiede l’intervento di squadre specializzate per la localizzazione e l’identificazione dei resti. Il rischio di rinvenire ordigni inesplosi (UXO) è elevato, con stime che indicano fino al 10% degli armamenti non detonati. Questa situazione impone la presenza continua di team di bonifica EOD (Explosive Ordnance Disposal), le cui risorse sono però limitate, con conseguenti ritardi e sospensioni delle operazioni.
La contaminazione ambientale è un ulteriore problema critico: circa il 15% delle macerie è probabilmente contaminato da sostanze pericolose come amianto, rifiuti industriali e metalli pesanti, che devono essere trattati come rifiuti speciali e richiedono l’uso di dispositivi di protezione per il personale addetto.
Dal punto di vista legale, la ricostruzione è ostacolata da complesse questioni inerenti al riconoscimento dei diritti di proprietà (HLP – Housing, Land and Property). Gaza presenta una situazione giuridica intricata, con leggi sovrapposte che risalgono all’Ordinanza Britannica sulla Pianificazione Urbana del 1936 e addirittura al Codice Fondiario Ottomano del 1858. Fino al 30% delle terre private non risultano registrate, aggravato dalla perdita o distruzione dei registri catastali. Il mancato riconoscimento dei diritti di proprietà rappresenta uno dei maggiori ostacoli alla ripresa post-conflitto, tanto che agenzie ONU, ONG e istituzioni accademiche lavorano per sensibilizzare e proporre linee guida che enfatizzino l’importanza dei diritti HLP.
Un ambiente al collasso e un futuro segnato dalla crisi
L’Unep sottolinea come il danno ambientale sia anch’esso di proporzioni drammatiche e la sua riparazione richiederà decenni. Le infrastrutture per il trattamento delle acque reflue sono crollate, la rete idrica è compromessa e la falda acquifera, principale fonte d’acqua potabile per Gaza, è fortemente contaminata. Gran parte dell’acqua dolce disponibile è inquinata, con ricadute sulla salute pubblica che interesseranno generazioni future.
L’area agricola è stata devastata: dal 2023, la Striscia ha perso il 97% delle colture arboree, il 95% della boscaglia e l’82% delle colture annuali, compromettendo gravemente la produzione alimentare locale. Questo quadro è aggravato dall’uso massiccio di esplosivi, la cui potenza totale è stimata essere tre volte quella combinata delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki.
Il sindaco attualmente in carica, Rafiq Tawfiq al-Makki, guida una città di quasi 600 mila abitanti, di cui oltre il 75% ha meno di 25 anni, che dovranno affrontare un percorso di ricostruzione lungo e complesso, tra sfide umanitarie, ambientali e legali.
La Striscia di Gaza si trova quindi di fronte a una sfida titanica: quella di trasformare un territorio devastato, carico di macerie e ferite, in uno spazio vitale sostenibile e sicuro, non solo per chi oggi sopravvive ma per le generazioni a venire.






