La guerra a Gaza continua a rivelare il suo volto più tragico, mettendo in evidenza non solo le atrocità del conflitto, ma anche il crescente rischio per i professionisti dell’informazione. L’attacco aereo sull’ospedale Nasser a Khan Younis che ha portato alla morte di almeno 20 persone, tra cui cinque giornalisti, ha scosso profondamente la comunità internazionale: il bombardamento compiuto da Israele, infatti, ha colpito non solo i diretti bersagli, ma anche coloro che si sono affrettati a prestare soccorso, sollevando interrogativi inquietanti sulla protezione dei reporter in zone di conflitto.
Tra le vittime, Hussam al-Masri, operatore della Reuters, stava trasmettendo in diretta utilizzando un dispositivo LiveU, tecnologia israeliana usata dalla maggior parte dei network radiotelevisivi mondiali.
LiveU: dalla start-up israeliana allo standard globale
LiveU, fondata nel 2006 a Kfar Saba, Israele, ha rivoluzionato il mondo della trasmissione video live con un’idea innovativa: la possibilità di trasmettere in diretta anche in assenza di collegamenti satellitari. Sotto la guida dell’israeliano Shmulik Wasserman, LiveU è diventata un punto di riferimento per broadcaster e media in oltre 150 Paesi. L’acquisizione da parte del gruppo statunitense Carlyle nel 2021 ha poi segnato un ulteriore passo nella crescita dell’azienda, che ha saputo mantenere la sua identità israeliana, con sede legale e centri di sviluppo ancora attivi nel Paese. La sua tecnologia è diventata uno standard nel settore, utilizzata da emittenti di tutto il mondo per eventi sportivi e notizie in diretta. Se il racconto di quanto sta accadendo dall’8 ottobre 2023 a Gaza, ha raggiunto l’opinione pubblica mondiale, dunque, è anche grazie agli apparati LiveU che i coraggiosi operatori dell’informazione hanno utilizzato fino a oggi sul suolo palestinese.
Il paradosso di Reuters, Al Jazeera e la dipendenza tecnologica
Il caso di Hussam al-Masri solleva, tuttavia, interrogativi inquietanti riguardo alla sicurezza e all’etica nell’uso della tecnologia da parte dei giornalisti e delle emittenti per cui lavorano, specialmente in contesti di conflitto come quello tra Israele e Hamas. La questione si fa ancora più complessa se si considera che un altro importante network come Al Jazeera, che ha numerosi giornalisti e operatori presenti a Gaza, spesso accusata da Israele di diffondere propaganda, si affida a dispositivi LiveU, sviluppati in Israele, per le sue trasmissioni dalla Striscia e dalla Cisgiordania. Questo paradosso mette in luce una contraddizione intrinseca: i giornalisti che si trovano in prima linea per documentare le atrocità e le violazioni dei diritti umani utilizzano strumenti tecnologici provenienti dal Paese che quei crimini li sta compiendo. Non solo. Per farlo si espongono sempre più a rischi per la loro incolumità che proprio il governo di quel Paese sembra non considerare.
Il tema, per i media, sembra a questo punto correre su un doppio binario: da una parte, la scelta editoriale dei grandi network dell’informazione, spesso accusati di “scelte di campo”, talvolta dai loro stessi dipendenti o collaboratori, come nel caso della fotoreporter di Reuters; dall’altra, la necessità di avvalersi di tecnologie che permettano di testimoniare quanto accade a Gaza e, più in generale, nei territori di guerra, consapevoli che queste nascono e vengono gestite da chi ha rapporti diretti con una delle parti belligeranti. Il tutto, a scapito di una trasparenza dell’informazione quantomai sotto minaccia.
Monitoraggio e teorie: realtà, rischi e dubbi legittimi
Il monitoraggio dei flussi video in tempo reale, specialmente in contesti di conflitto, solleva interrogativi complessi e sfumati. LiveU, un attore chiave nel settore delle trasmissioni in diretta, offre due modalità operative: una in cui i broadcaster mantengono il controllo esclusivo sui propri server e l’altra che si affida a un’infrastruttura cloud, prevalentemente gestita da giganti come AWS e Azure. Questa seconda opzione, sebbene possa semplificare le operazioni per le emittenti, ha alimentato un dibattito acceso riguardo alla sicurezza e alla privacy dei dati. Le preoccupazioni non sono infondate: in un contesto geopolitico delicato come quello israeliano, le leggi sulla sicurezza nazionale possono costringere le aziende a collaborare con le autorità governative, sollevando dubbi legittimi su come e quando i dati possano essere condivisi. Non sono pochi gli interventi sui social network e nei forum in cui utenti segnalano la possibilità per Israele di avvalersi di informazioni in tempo reale provenienti da reporter sul posto.
Posto che nessuna di queste teorie è mai stata dimostrata e che affinchè ciò avvenga il processo dovrebbe passare prima da un iter parlamentare in seno alla Knesset, le implicazioni di questa situazione sono particolarmente gravi per i giornalisti e i professionisti dei media che operano in zone di conflitto, dove la protezione delle fonti e la riservatezza delle informazioni sono fondamentali. La possibilità che i flussi video, i metadati e persino la posizione geografica dei dispositivi possano essere accessibili a terzi, in particolare in un contesto di guerra, rappresenta un rischio significativo. Anche se non ci sono prove concrete che LiveU condivida sistematicamente dati con le autorità israeliane, acquisendole dai flussi dei giornalisti a Gaza e trasmettendole di sua sponte in Israele, il semplice fatto che esista la possibilità di una tale interazione è sufficiente a generare ansia tra i professionisti del settore.
Un equilibrio fragile
La recente vicenda che ha coinvolto Reuters e LiveU mette in luce una tensione intrinseca nel panorama dell’informazione moderna, dove la tecnologia e l’etica si intrecciano in modi complessi. LiveU, diventato uno standard tecnologico per le emittenti di tutto il mondo, offre soluzioni di trasmissione in diretta che sono difficili da sostituire. Questa dipendenza operativa da LiveU, tuttavia, solleva interrogativi significativi, soprattutto considerando che molte emittenti, incluse quelle che, su Gaza e non solo esprimono posizioni critiche nei confronti di Israele, si avvalgono dei suoi servizi per dare voce ai giornalisti presenti in loco. La questione si complica ulteriormente nel contesto attuale, caratterizzato da tensioni geopolitiche e conflitti aperti, dove ogni scelta tecnologica può avere ripercussioni etiche e politiche.
In un’epoca in cui la trasparenza e la responsabilità sono sempre più richieste, è essenziale che le aziende come LiveU chiariscano le loro politiche di gestione dei dati e rassicurino i loro utenti riguardo alla protezione delle informazioni sensibili. La fiducia è un elemento cruciale nel mondo dei media; senza di essa, il rischio di autocensura e limitazione della libertà di stampa potrebbe aumentare. La questione del monitoraggio e della gestione dei dati non è solo una questione tecnica ma tocca le fondamenta stesse della libertà di informazione e del diritto di cronaca.
La morte di al-Masri per mano di Israele non è solo un evento tragico, ma un campanello d’allarme per l’intera comunità di giornalisti e professionisti, che deve riflettere su come garantire la sicurezza dei propri operatori, a Gaza e ovunque, e l’integrità delle informazioni e della loro acquisizione, tramite LiveU o altre tecnologie. In un’epoca in cui la disinformazione è dilagante, è fondamentale che i reporter possano operare in condizioni di sicurezza e con strumenti che non compromettano la loro missione di verità. La sfida è quindi duplice: proteggere i giornalisti e garantire che le loro voci possano continuare a risuonare, anche in mezzo al caos e alla violenza.






