Doha, 1 ottobre 2025 – Nonostante l’ottimismo espresso dal presidente americano Donald Trump, e il sostegno significativo che il suo impegno per la situazione di Gaza ha ricevuto nel mondo arabo, la complessa crisi che coinvolge Hamas e la Striscia di Gaza resta lontana da una risoluzione immediata. Nei centri decisionali di Doha, capitale del Qatar, sono infatti appena iniziati i negoziati cruciali per mettere fine alla guerra e, soprattutto, per definire il futuro assetto politico e sociale della regione dopo il conflitto. Contrariamente alla previsione di Trump che dava al movimento palestinese pochi giorni per accettare una proposta di pace o subirne le conseguenze, la trattativa si prospetta lunga e complessa.
Le trattative in Qatar con Hamas
Ieri, mentre il capo dei servizi turchi Ibrahim Kalin, stretto alleato di Erdogan, atterrava a Doha, il premier del Qatar Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim al-Thani ha chiesto apertamente “chiarimenti” e ulteriori “negoziati” su due questioni centrali: il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia e la formazione di una nuova “amministrazione palestinese di Gaza” che “non riguardi Israele“. I paesi arabi, così come anche la Turchia, criticano l’ambiguità con cui nel piano Trump si accenna a un lontano “Stato palestinese” e l’esclusione dell’Autorità nazionale palestinese dai colloqui. Secondo Axios, la bozza elaborata con qatarini, sauditi, egiziani ed emiratini non coincide con quella annunciata da Trump lunedì. Le pressioni di Netanyahu, durante un lungo incontro con Kushner prima della conferenza con il presidente Usa, hanno spinto Washington a cambiare testo, “provocando l’ira dei funzionari arabi coinvolti“.
Nella prima versione figuravano condizioni stringenti per il ritiro israeliano, mentre quella diffusa ai media consente all’Idf di restare entro un perimetro di sicurezza a Gaza anche a tempo indefinito. Il Qatar avrebbe persino tentato di dissuadere l’amministrazione Usa dal pubblicare il piano. Da qui le parole di Al Thani sulla necessità di un “chiarimento” e di più tempo. Anche perché Hamas appare diviso: una parte incline ad accettare, un’altra contraria e un’altra ancora disposta a valutare cambiamenti sostanziali, soprattutto sulle garanzie di non ripresa del conflitto e sul ritiro dell’Idf. La pressione internazionale sul movimento resta altissima.
Le pressioni di Paesi come Turchia e Pakistan
Nonostante tensioni e distinguo, i paesi arabi del Golfo e nazioni musulmane come Turchia e Pakistan, influenti in Asia occidentale, hanno firmato una dichiarazione a sostegno dell’iniziativa di Trump. Segnale che il consenso sull’urgenza di porre fine alla guerra con l’estromissione di Hamas è ampio. Erdogan si è impegnato personalmente sulla road map americana, dopo aver ottenuto da Trump la legittimazione politica a lungo attesa con l’incontro alla Casa Bianca. E nonostante il conflitto e gli attacchi israeliani al Qatar, nessun paese della regione ha finora interrotto i rapporti con Israele: non i giordani, né gli egiziani, né i turchi o gli emiratini, primi sottoscrittori degli accordi di Abramo.
Hamas e la decisione di accettare il piano Trump
Fonti arabe che seguono i colloqui a Doha prevedono che Hamas finirà per accettare. La decisione, spiegano, maturerà prima a Gaza, poi a Doha. Ma il movimento islamista porrà condizioni e chiederà tempo per negoziarle. Il piano resta una resa, ma contiene risultati che Hamas può rivendicare come vittorie: la liberazione di 250 ergastolani su 300 detenuti nelle carceri israeliane rappresenta un numero altissimo per un’organizzazione che ha sempre considerato prioritaria la scarcerazione dei propri uomini. A questi si aggiungono i 1.700 prigionieri che potranno tornare a Gaza, dove intanto si continua a morire.
Ieri sera l’esercito israeliano ha colpito Deir El Balah, nel centro della Striscia, dopo aver ordinato ai civili in fuga dal nord di ripararsi proprio in quell’area e nelle zone vicine. L’obiettivo era una caffetteria, una delle poche ancora aperte, dove cercare per un istante un po’ di respiro. Il bilancio è stato di almeno due vittime e un messaggio inequivocabile: nessun luogo è sicuro, a Gaza.






