Sono trascorsi due anni dal 7 ottobre 2023, il giorno in cui si è riacceso il conflitto tra Israele e Hamas. In un’occasione come questa è importante ricordare non solo cosa accadde, ma anche analizzare l’impatto che ha avuto sull’intero Medio Oriente e sulla comunità internazionale.
Gli eventi del 7 ottobre 2023
All’alba di sabato 7 ottobre 2023, Hamas diede avvio a un’ondata di razzi e colpi di mortaio contro città e basi militari israeliane. L’operazione, battezzata Diluvio di al-Aqsa in riferimento al complesso della moschea di Gerusalemme, considerato il terzo luogo più sacro dell’Islam, segnò l’inizio dell’attacco più sanguinoso contro Israele dalla nascita dello Stato ebraico nel 1948.
Il raid fu studiato per colpire Israele nel giorno di riposo dello Shabbat e nell’ultima giornata della festività di Sukkot, cogliendo di sorpresa i servizi di intelligence.
Il diluvio di razzi e la rottura delle difese
Il sistema di difesa aerea israeliano Iron Dome, entrato in funzione nel 2011, fu rapidamente sopraffatto dalla massa di missili. Hamas affermò di aver lanciato 5.000 razzi in venti minuti, con una gittata fino a 80 chilometri; le autorità israeliane ne contarono circa 2.500. Le sirene risuonarono in tutto il Paese, da Tel Aviv a Gerusalemme e fino a Be’er Sheva. Mentre i civili correvano verso i rifugi, i razzi si abbattevano sulle città, provocando le prime vittime e ingenti danni nei centri più vicini alla Striscia.
L’incursione via terra, mare e aria
Il bombardamento servì a coprire l’avanzata dei commando di Hamas, che in poche ore aprirono decine di brecce lungo i 59 chilometri della barriera che separa Gaza da Israele. Secondo gli esperti, i miliziani dell’ala armata al-Qassam conoscevano perfettamente il territorio e avevano pianificato ogni mossa.
Droni esplosivi furono impiegati per distruggere torrette di sorveglianza e mezzi militari israeliani, mentre bulldozer allargavano i varchi per far passare pick-up e motociclette. Alcuni gruppi raggiunsero Israele anche via mare o con deltaplani motorizzati. Entro poche ore, i combattenti di Hamas si erano infiltrati in numerosi punti lungo il confine, sopraffacendo le unità israeliane.
Le basi militari sotto assedio
Tra le 6.30 e le 8.30 del mattino, i miliziani colpirono diverse basi israeliane – Erez, Zikim, Nahal Oz, Sufa, Re’im e quelle vicino a Be’eri e Kerem Shalom – uccidendo decine di soldati, molte delle quali donne non armate. Il quartier generale della Divisione Gaza a Re’im fu conquistato e ripreso solo in serata.
Israele fu colto impreparato: per ore, militari e civili dovettero difendersi da soli. Le immagini diffuse successivamente mostrarono scontri feroci, con l’uso di lanciarazzi, granate e armi automatiche.
I massacri nei kibbutz e al festival Supernova
Intorno alle 7 del mattino, i primi video mostrarono miliziani di Hamas nelle strade di Sderot, cittadina a un chilometro dalla Striscia. I combattenti aprirono il fuoco sui civili, uccidendo almeno venti persone, poi assaltarono la stazione di polizia, dove morirono dieci agenti. L’edificio venne successivamente distrutto dall’esercito israeliano.Nel frattempo, diversi kibbutz furono attaccati: Be’eri, Nirim, Nir Oz, Nir Yitzhak, Netiv HaAsara e Kfar Aza divennero teatro di massacri. A Be’eri, l’assalto durò sette ore: 101 civili e 31 membri della sicurezza vennero uccisi, 32 persone prese in ostaggio. A Kfar Aza, morirono 64 abitanti e 18 furono rapiti.
Il massacro più grave avvenne però al festival musicale Supernova, vicino al kibbutz Re’im. Circa 3.000 giovani stavano ballando quando arrivarono i primi razzi. Le strade per fuggire si bloccarono e i miliziani, giunti via terra e aria, aprirono il fuoco indiscriminatamente: 364 persone furono uccise e 44 rapite. In totale, gli ostaggi del 7 ottobre furono 251, tra cui 74 provenienti dal kibbutz Nir Oz.
Le conseguenze dell’attacco del 7 ottobre
Quel giorno Israele visse il più grave attacco terroristico della sua storia, definito da molti la peggior strage di ebrei dai tempi della Shoah. La risposta israeliana diede avvio a un conflitto durissimo nella Striscia di Gaza, costato decine di migliaia di vite e destinato a mutare per sempre gli equilibri del Medio Oriente.
Prime Minister Benjamin Netanyahu:
“Citizens of Israel,
We are at war, not in an operation or in rounds, but at war. This morning, Hamas launched a murderous surprise attack against the State of Israel and its citizens. We have been in this since the early morning hours. pic.twitter.com/C7YQUviItR— Prime Minister of Israel (@IsraeliPM) October 7, 2023
Due anni dopo, le conseguenze del 7 ottobre continuano a ridisegnare la regione. La caduta del regime siriano di Bashar al-Assad ha aperto la strada al ritorno di milioni di profughi e a un fragile governo di transizione che tenta di organizzare elezioni. Nel frattempo, gli attacchi dei ribelli Houthi in Yemen restano una minaccia alla navigazione nel Mar Rosso, ma le operazioni militari congiunte di Stati Uniti e Israele ne hanno ridotto la capacità offensiva.
La nuova mappa del Medio Oriente
La guerra del 2023-2024 e i raid israeliani del giugno 2025 contro obiettivi iraniani hanno indebolito Teheran, spingendo l’ONU a reintrodurre sanzioni economiche e a congelare gli asset del Paese. In Libano, Hezbollah ha perso gran parte della sua leadership, colpita da operazioni mirate dell’IDF e del Mossad. Il nuovo governo di Beirut, sostenuto da Israele e Stati Uniti, si è impegnato a disarmare le milizie.
Parallelamente, il mondo arabo ha avviato un percorso inedito: la maggior parte dei Paesi della regione si è detta favorevole alla smobilitazione dei gruppi armati ostili a Israele. Dopo anni di tensioni e insediamenti israeliani nei Territori occupati, la dinamica geopolitica sembra aver nuovamente cambiato direzione.
La svolta diplomatica e il piano di pace
Il presidente americano Donald Trump, dopo aver respinto le ipotesi di annessione definitiva della Cisgiordania, ha promosso un piano di pace in 20 punti per Gaza, elaborato insieme a Francia e Arabia Saudita. Il progetto, approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso settembre, prevede la smilitarizzazione di Hamas, la riforma dell’Autorità Palestinese e una missione internazionale di stabilizzazione nella Striscia.

Molti Stati occidentali, tra cui Canada, Regno Unito e Australia, hanno annunciato l’intenzione di riconoscere lo Stato di Palestina. Hamas, inizialmente contrario, ha dichiarato di accettare parzialmente le condizioni del piano, mentre Israele ha ribadito che, in caso di rinuncia da parte del movimento islamista, “completerà il lavoro da solo”.
Il collasso economico dopo il 7 ottobre
Due anni di violenze hanno devastato l’economia della Striscia di Gaza e colpito duramente anche quella israeliana. Il mercato alimentare è crollato, l’edilizia e l’agricoltura languono, il turismo è fermo. Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 e la successiva offensiva israeliana, decine di migliaia di lavoratori palestinesi sono stati esclusi dai cantieri e dalle aziende israeliane. Il blocco dei permessi di ingresso non ha colpito solo le famiglie palestinesi che dipendevano da quei salari, ma anche le imprese israeliane rimaste senza manodopera.
La crisi umanitaria a Gaza prima e dopo il 7 ottobre
Ben prima del massacro di due anni fa, la popolazione di Gaza viveva in condizioni estreme. In un territorio grande meno della Valle d’Aosta, oltre due milioni di persone affrontavano carenze croniche di acqua potabile, elettricità e servizi igienici. Due terzi della popolazione era in povertà e la disoccupazione sfiorava il 45%. Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), già nel 2022 il recupero delle condizioni economiche e sociali avrebbe richiesto decenni e massicci interventi internazionali. L’ulteriore distruzione causata dai bombardamenti israeliani ha reso quel traguardo oggi quasi irraggiungibile.
L’impatto sulla Cisgiordania
L’invasione di Gaza e la chiusura dei valichi hanno prodotto un effetto domino in tutti i Territori occupati. Migliaia di lavoratori palestinesi – operai, agricoltori, artigiani – hanno perso l’accesso al mercato del lavoro israeliano. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha ricordato che quei lavoratori avrebbero ancora diritto al salario e al posto, ma la realtà è ben diversa: solo circa 8.000 palestinesi della Cisgiordania oggi possono entrare in Israele, contro i 300.000 di prima del 7 ottobre. Significa che oltre 280.000 persone sono rimaste senza reddito.
Molti funzionari dell’intelligence israeliana hanno chiesto al governo di rivedere questa politica, definendola una “bomba sociale pronta a esplodere” a causa dell’aumento della disoccupazione e del lavoro illegale. Secondo Yediot Ahronoth, sarebbero già circa 40.000 i palestinesi che lavorano in Israele senza permesso.
L’impatto sul sistema economico israeliano
Il blocco della manodopera palestinese ha colpito anche l’economia israeliana. I cantieri residenziali hanno subito un crollo del 95% nel primo anno di guerra. L’agricoltura, i servizi pubblici e il turismo hanno conosciuto perdite drastiche: secondo i dati del Ministero del Turismo, gli arrivi sono diminuiti di tre quarti dall’inizio dell’invasione. L’edilizia, che rappresenta circa il 10% del PIL israeliano, è oggi il settore più penalizzato.
La sostituzione dei lavoratori palestinesi con manodopera straniera ha comportato costi aggiuntivi per visti, alloggi e interpreti, aggravando l’inflazione e il costo della vita. Intanto cresce anche in Israele la povertà, e sempre più famiglie si rivolgono alle organizzazioni umanitarie per ricevere aiuti.
Disperazione e nuove forme di criminalità
Per molti palestinesi privati del lavoro non restano che strade pericolose: il reclutamento da parte di gruppi armati o la formazione di piccole bande criminali. La disoccupazione di massa e la disperazione diffusa alimentano così un ciclo di violenza e illegalità che rischia di compromettere ulteriormente ogni prospettiva di stabilità.
Un’economia di guerra e di profitti
Dietro la distruzione e la miseria, ci sono però anche enormi guadagni. Le vere beneficiarie del conflitto sono le industrie belliche, le multinazionali dell’energia e delle risorse naturali, le banche e i fondi di investimento che prosperano sulla guerra. Nel suo ultimo rapporto per le Nazioni Unite, From Economy of Occupation to Economy of Genocide, la relatrice speciale Francesca Albanese parla di “un’economia del genocidio” ormai istituzionalizzata in Israele, dove la produzione militare e le commesse internazionali generano profitti miliardari.
Un’economia che cresce sulle macerie di Gaza, tra la distruzione di ospedali, scuole e abitazioni, e in totale violazione dei principi del diritto umanitario internazionale.
Per approfondire: Gaza, i 20 punti del piano Trump per la fine della guerra






