La pensione di vecchiaia in Italia, nel 2025, richiede 67 anni di età e almeno 20 anni di contributi. Questo requisito vale per tutti e, salvo nuovi interventi, resta invariato fino alla fine del 2026. Poi entra in gioco l’aggancio alla speranza di vita: se la longevità media crescerà, l’asticella si sposterà più avanti. È l’effetto della riforma Fornero, che ha legato i requisiti anagrafici all’evoluzione demografica. Oggi la vita media nazionale sfiora gli 83,4 anni: un trionfo per la salute pubblica, una corsa a ostacoli per i conti della previdenza.
Accanto alla vecchiaia ci sono i canali per uscire prima. La pensione anticipata ordinaria consente di smettere di lavorare con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, a prescindere dall’età. Nel 2025 è attiva anche la pensione anticipata flessibile (Quota 103: 62 anni di età e 41 anni di versamenti). Per chi ha il primo contributo dal 1996, esiste la pensione anticipata contributiva (uscita a 64 anni con 20 anni di contributi e assegno sopra una soglia minima), opzione spesso rilevante per autonomi e carriere discontinue.
Dietro i numeri c’è l’architettura del sistema: a ripartizione. I contributi versati oggi non vengono accantonati in un salvadanaio individuale, ma finanziano le pensioni correnti. Dal 1995 il calcolo è passato dal retributivo al contributivo (o misto per chi ha anzianità precedente), legando l’importo futuro all’ammontare effettivamente versato e all’età di uscita. In città come Roma, Milano, Torino, dove l’ingresso nel lavoro è spesso tardivo e le carriere iniziano a singhiozzo, questo passaggio pesa: meno continuità, montante più leggero, uscita rinviata.
Numeri e tendenze: perché il sistema è sotto pressione
La spesa per pensioni e rendite ha toccato nell’ultimo anno una quota enorme del bilancio pubblico, sfiorando i 336 miliardi di euro. Al 1° gennaio 2025 le prestazioni in pagamento sono quasi 18 milioni, di cui oltre 13 milioni di natura previdenziale. Con una società che invecchia e un mercato del lavoro dove salari e produttività corrono poco, l’equilibrio si gioca sulla dimensione della platea che versa i contributi.
Tre forze spingono nella stessa direzione. Crescita economica lenta: stipendi bassi e carriere intermittenti riducono il montante e i versamenti. Invecchiamento: l’età media supera ampiamente i 46 anni e il peso degli over 65 aumenta anno dopo anno. Calo demografico: il tasso di natalità è sceso su livelli storicamente bassi; le nuove coorti che entrano nel lavoro sono più piccole delle precedenti. Le proiezioni sul medio periodo parlano chiaro: entro il 2050 il rapporto tra persone occupate e pensionati potrebbe avvicinarsi a 1 a 1. Con un equilibrio così sottile, anche oscillazioni minime della speranza di vita hanno ricadute concrete sull’età di ritiro.
Cosa significa questo per chi oggi ha 25 o 30 anni? Che la domanda “a che età andrò in pensione?” non ha una risposta unica. Le regole fissano un pavimento (i 67 anni), ma l’uscita reale dipende da quanto e come si è lavorato. Contratti a termine, part-time involontario, periodi di inattività, passaggi in gestioni separate o casse professionali modificano il percorso. Chi maturerà prima i 41/42 anni e 10 mesi potrà utilizzare l’anticipata, tutti gli altri guarderanno al requisito anagrafico agganciato alla longevità.

Quando andranno in pensione i giovani di oggi: la forchetta realistica
La traiettoria più plausibile porta a un’uscita oltre i 67 anni per molte coorti che stanno iniziando ora la carriera. Le stime più accreditate collocano l’orizzonte tra fine sessanta e primi settanta, con differenze legate a settore, storia contributiva e futuri aggiustamenti normativi. Nell’arco 2027–2060 l’adeguamento alla speranza di vita potrà produrre piccoli scatti ripetuti. Se la natalità non risalirà e la base occupazionale resterà fragile, il baricentro si sposterà verso i 70 anni.
Per chi mira a uscire prima dell’età legale, i sentieri ci sono ma chiedono carriere piene. L’anticipata ordinaria è la via più solida per chi ha iniziato presto o non ha avuto interruzioni. Quota 103 è una finestra temporanea utile a chi raggiunge il binomio 62/41; la contributiva a 64 anni è un’opzione tecnica che premia chi ha versato stabilmente dopo il 1996 e raggiunge un assegno sufficiente. Strumenti come riscatto della laurea, ricongiunzione, totalizzazione e adesione a fondi pensione possono fare la differenza nel lungo periodo, soprattutto per chi lavora nelle metropoli e in settori a forte rotazione.
Cosa accade fuori dall’Italia: l’Europa sale di grado
Il fenomeno è generale. La Francia ha spostato l’età legale da 62 a 64 anni con un calendario che arriva al 2030, scelta accompagnata da grandi proteste a Parigi, Marsiglia, Lione. La Danimarca ha programmato i 70 anni dal 2040, con un meccanismo che potrà salire ancora se la longevità avanzerà. Tra i Paesi con requisiti simili ai nostri si muovono Grecia, Spagna, Belgio, Svizzera, dove l’uscita oscilla tra 65 e 67 anni. Più elastica la Slovenia, che consente l’accesso a 62 anni con 40 anni di contributi. Il messaggio è univoco: l’Europa invecchia e gli ordinamenti si adattano.
Una chiusura lunga: scelte personali, scelte collettive
Per i giovani di oggi la pensione non è un traguardo fissato sulla carta, ma l’esito di un percorso. Le regole dicono 67 anni/20 anni come base; la realtà, però, somma carriere spezzate, stipendi che non corrono, aspettativa di vita in salita. Per spostare l’ago della bilancia servono mosse individuali e politiche pubbliche credibili. Sul piano personale conviene: proteggere i contributi fin dall’inizio, evitare buchi inutili, valutare per tempo previdenza complementare e riscatti (anche in forma agevolata), seguire con attenzione le finestre che di anno in anno possono aprire opportunità. Sul piano collettivo, la stabilità passa da occupazione femminile più alta, produttività migliore, sostegno alla natalità, gestione intelligente dei flussi migratori qualificati, formazione continua dopo i 50 anni.
In città come Roma e Milano, dove servizi e imprese possono fare da apripista, vale la pena immaginare luoghi di lavoro pensati per chi ha oltre 60 anni: turni più flessibili, welfare aziendale, prevenzione sanitaria, strumenti digitali che riducano lo sforzo fisico e tengano alte le competenze. Un Paese che accompagna le persone lungo tutto il ciclo lavorativo rende credibile l’idea di restare attivi più a lungo senza trasformare gli ultimi anni in una corsa di resistenza. Se questa infrastruttura sociale non verrà costruita, con un pensionato per ogni lavoratore l’età effettiva di ritiro tenderà a salire quasi da sola.
Chi si affaccia ora al lavoro deve guardare lontano. Le regole possono cambiare, la demografia no: ecco perché costruire presto un profilo contributivo solido e affiancare un secondo pilastro è una scelta prudente. Le finestre legislative – dalla pensione anticipata ordinaria a formule come Quota 103 – resteranno utili valvole di sfogo, ma il cuore del sistema resterà agganciato alla speranza di vita. Senza una scossa su natalità, produttività e partecipazione al lavoro, il traguardo per i nati di oggi rischia di assestarsi vicino ai 70 anni. Non è solo un tema di contabilità pubblica: riguarda la qualità di vita di una generazione intera e la capacità dell’Italia di programmare, finalmente, un patto tra età che non lasci indietro nessuno.






