Roma, 28 agosto 2025 – La Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil) torna a sollevare forti critiche contro le modifiche introdotte dal Governo Meloni sulle aliquote di rendimento delle pensioni pubbliche. Il sindacato definisce incostituzionale l’intervento che, secondo quanto previsto dalla legge di Bilancio per il 2024, modifica in modo significativo il calcolo delle pensioni per i dipendenti pubblici con meno di 15 anni di contributi al 31 dicembre 1995.
Cgil: “Misura retroattiva e incostituzionale”
La norma in questione stabilisce che per i lavoratori pubblici interessati l’aliquota di rendimento per la parte retributiva (riguardante gli anni di contribuzione antecedenti al 1996) venga fissata al 2,5% annuo. Questo modifica il sistema precedente che prevedeva aliquote più favorevoli, con un incremento progressivo dal 24,45% del primo anno fino al 37,5% al quindicesimo anno. Prima di questa modifica, i dipendenti che andavano in pensione di vecchiaia senza usufruire della pensione anticipata mantenevano il diritto alle vecchie aliquote.
Nel recente messaggio diramato dall’Inps, è stato chiarito che non si applica alcuna deroga per chi esce dal lavoro prima dei 67 anni anche se poi attende tale età per richiedere la pensione. Questo dettaglio ha alimentato la preoccupazione della Cgil che definisce la misura “retroattiva”, poiché interviene sulle posizioni contributive già maturate, violando i principi di certezza del diritto e configurando “evidenti profili di incostituzionalità”.
Secondo il sindacato, è la prima volta che un governo interviene in modo retroattivo sulle pensioni pubbliche con una norma così restrittiva, superando persino la riforma Monti-Fornero.
Impatti economici e sociali
Le stime elaborate dalla Cgil indicano che nel 2043 saranno oltre 730.000 i lavoratori pubblici colpiti da questa misura, con un taglio complessivo alle pensioni che potrebbe arrivare a 33 miliardi di euro a regime. L’ufficio politiche previdenziali del sindacato ha calcolato che gli effetti sono particolarmente gravi per chi ha pochi anni nella parte retributiva: un lavoratore con un anno di contribuzione in tale sistema potrebbe subire una riduzione annua della pensione che va da 6.177 euro per un assegno da 30 mila euro, fino a 14.415 euro per pensioni da 70 mila euro.
Per chi ha iniziato a versare i contributi nel 1983, con tra i 12 e i 13 anni di contribuzione retributiva, la riduzione è più contenuta ma comunque significativa, oscillando tra 927 e 2.163 euro annui a seconda dell’importo dell’assegno pensionistico.
La Cgil sottolinea che questa misura, unita a contratti di lavoro giudicati insufficienti, a pensioni decurtate e a finestre di uscita più lunghe fino a 9 mesi per il pubblico impiego, rappresenta “un vero attacco ai dipendenti pubblici”. Il sindacato mette in guardia dal rischio concreto che chi ha iniziato a lavorare presto debba lavorare fino a 48-49 anni di contributi per evitare di subire i tagli.
Governo Meloni e la politica previdenziale
La riforma sulle aliquote pensionistiche è stata introdotta dal Governo Meloni e inserita nella legge di Bilancio 2024. L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha puntato a modificare alcune regole sulle pensioni pubbliche nell’ambito di una più ampia revisione del sistema previdenziale e del pubblico impiego.
Il messaggio dell’Inps e le conseguenti interpretazioni hanno scatenato la reazione del principale sindacato italiano, che evidenzia come queste modifiche non solo incidano in maniera pesante sul futuro economico di centinaia di migliaia di lavoratori, ma sollevino anche dubbi di legittimità costituzionale per l’effetto retroattivo sulle quote retributive già maturate.
La posizione della Cgil, fondata su dati e analisi dettagliate, riflette un crescente malcontento nel settore pubblico che potrebbe tradursi in ulteriori iniziative di protesta nei prossimi mesi.






