“In questi tre anni è arrivata addosso agli italiani una montagna di tasse, con fiscal drag e perdita del potere di acquisto – sono 25 miliardi – che si sono mangiati gli stipendi. Questa è una manovra senza visione industriale, senza un piano per la sanità e senza un reale potere di acquisto recuperato per gli italiani”. Così Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, a DiMartedì su La7. Ma la sua è solo propaganda o c’è del vero? Vediamo la reale situazione del nostro Paese.
Tasse in Italia: la destra ha disatteso le sue promesse
I partiti di maggioranza — Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia — avevano costruito la loro campagna sul mantra del “meno tasse, più crescita”. Tuttavia, dal 2023 il carico fiscale effettivo è aumentato in modo significativo, e la legge di bilancio appena presentata contribuirà a mantenerlo su livelli record.
Per l’anno in corso è prevista una pressione fiscale ai massimi degli ultimi dieci anni, e la prospettiva per il biennio successivo non è affatto più rosea.

Va detto che la pressione fiscale elevata non è un’anomalia italiana recente: serve, tra le altre cose, a finanziare un sistema di welfare tra i più estesi d’Europa, soprattutto in materia di pensioni e sanità. Ma guardando all’andamento storico si nota come il governo Meloni, nonostante le dichiarazioni, non abbia invertito la tendenza, bensì l’abbia rafforzata.
Cosa misura la pressione fiscale
La pressione fiscale è data dalla somma delle imposte dirette (come l’IRPEF), indirette (come l’IVA), in conto capitale (come quelle di successione) e dai contributi sociali. È l’indicatore più immediato per capire quanto pesano le tasse sui redditi e sui consumi dei cittadini, e quanto può realmente incidere la politica fiscale di un governo.
Dall’insediamento dell’esecutivo Meloni, nell’ottobre 2022, la pressione fiscale è aumentata di 1,3 punti percentuali di PIL, mentre le entrate totali sono cresciute di 1 punto. In termini assoluti significa circa 22 miliardi in più di tasse e 28 miliardi di maggiori entrate complessive per lo Stato. Nel secondo trimestre del 2024 i due indicatori hanno toccato livelli record: 42,8% e 47,6% del PIL, vicini ai picchi raggiunti durante il governo Monti nel pieno della crisi del debito.
Previsioni: tasse alte anche nei prossimi anni
Secondo le previsioni contenute nella Nota di aggiornamento al DEF, nel 2025 la pressione fiscale salirà ancora al 42,8% del PIL, rispetto al 42,5% del 2024, raggiungendo il valore più alto dal 2015. Nel 2026 si manterrà stabile, e secondo l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani potrebbe arrivare al 42,9% nel 2027, per poi scendere lievemente al 42,7% nel 2028.
In pratica, quasi la metà della ricchezza prodotta in Italia finirà nelle casse pubbliche.
A complicare il quadro c’è anche la scarsa trasparenza dei dati di bilancio: il governo fa un uso estensivo delle cosiddette “voci residuali”, che restano fuori dal calcolo della pressione fiscale, falsando parzialmente la percezione del carico reale. È un metodo già criticato da economisti e istituzioni indipendenti, poiché rende difficile capire se le tasse effettive aumentano o diminuiscono.
Le contraddizioni del governo: tagli annunciati, tasse reali in aumento
Come è possibile, dunque, che la pressione fiscale sia ai massimi da un decennio mentre il governo rivendica di aver ridotto le imposte?
L’esecutivo ha effettivamente introdotto alcuni interventi di segno opposto: ha reso permanente il taglio del cuneo fiscale — introdotto da Draghi per compensare l’inflazione — e ha ridotto le aliquote IRPEF, passando da quattro a tre scaglioni e abbassando quella per i redditi fino a 28.000 euro.

Tuttavia, il primo provvedimento ha perso efficacia nel passaggio da regime temporaneo a permanente, riducendo gli effetti positivi in busta paga per molti lavoratori. Il secondo, pur strutturale, ha avuto un impatto troppo limitato per contrastare l’aumento generale del prelievo.
Fiscal drag: l’effetto invisibile che aumenta le imposte
La chiave per capire il paradosso fiscale del governo Meloni è il fiscal drag, o drenaggio fiscale. Si tratta di un meccanismo tipico dei sistemi fiscali progressivi: quando l’inflazione spinge in alto i salari nominali, questi superano le soglie degli scaglioni IRPEF, facendo pagare più tasse anche senza un reale aumento del potere d’acquisto.
Negli ultimi quattro anni i prezzi sono saliti del 16%, mentre le retribuzioni sono cresciute solo dell’8%. Gli stipendi, pur aumentando nominalmente, hanno perso valore reale e al tempo stesso sono entrati in scaglioni di tassazione più alti, generando un incremento automatico delle entrate per lo Stato.
Il risultato? Si pagano più imposte sul reddito e più IVA (poiché quest’ultima cresce con i prezzi). Secondo una stima di lavoce.info, il solo drenaggio fiscale nel 2024 ha portato 17 miliardi di euro in più nelle casse pubbliche. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio calcola che i due principali interventi del governo (taglio del cuneo e riduzione IRPEF) non solo non abbiano compensato il drenaggio, ma lo abbiano peggiorato per circa 300 milioni di euro all’anno.
Una scelta politica precisa
Il governo, dicono gli esperti, ha deliberatamente deciso di non restituire ai contribuenti i proventi extra generati dal fiscal drag, scegliendo invece di utilizzarli per sistemare i conti pubblici e contenere il deficit.
Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti hanno spesso sostenuto che l’aumento della pressione fiscale sia dovuto al maggior numero di occupati e quindi di contribuenti. Ma questa tesi è stata smentita dagli economisti: l’incremento è in gran parte strutturale e non dipende dall’aumento dell’occupazione.
Meno tasse a parole, più tasse nei fatti
Al netto delle giustificazioni politiche, i numeri raccontano una realtà chiara: durante i tre anni di governo Meloni, gli italiani hanno pagato più tasse, e la pressione fiscale ha raggiunto livelli che non si vedevano dal periodo dell’austerità.
Le misure di riduzione, pur esistenti, sono state più narrative che sostanziali, incapaci di contrastare il peso crescente dell’inflazione e del drenaggio fiscale.
In sintesi: il governo Meloni non ha ridotto le tasse. Ha beneficiato, piuttosto, di un aumento automatico del gettito, senza intervenire per restituire il potere d’acquisto ai cittadini. E la promessa elettorale di “meno tasse per tutti” resta, almeno per ora, una promessa mancata.






