C’è un momento in cui Lecce cambia respiro. Oltre Porta Napoli, su via Palmieri, il barocco smette di fare la voce grossa e si mette all’altezza degli occhi: cornici che prendono luce, balconi che dialogano tra loro, mensole fiorite consumate dalle mani e dal tempo. Dietro un portone accostato, l’ombra di un androne fresco di calce introduce a un cortile di pochi metri: due piante d’agrumi, il rumore di stoviglie dal piano terra, la pietra che tiene il fresco anche a mezzogiorno. Al centro, come un piccolo altare domestico, una vera di pozzo in pietra leccese: bordo levigato dall’uso, ferro battuto che descrive un arco semplice, secchio in vista o catena raggomitolata. Qui l’architettura non fa scena: regola i gesti quotidiani, il saluto dall’uscio, la voce che rimbalza sotto le volte.
Questa trama di corti e pozzi è davvero “a due passi” dalla via. La strada, chiara e diritta, collega Porta Napoli alla Piazza del Duomo e scorre tra palazzi storici che raccontano una città compatta, costruita tutta nella stessa pietra color miele. Camminando piano, s’accorgono dettagli che le guide sfiorano e gli abitanti danno per scontati: le scale a gomito che risalgono i prospetti interni, i corridoi laterali che tagliano il palazzo, i mezzanini bassi dove si sente l’odore di bucato.
Dove siamo (e perché conta)
Via Palmieri è una dorsale del centro antico: dall’Arco di Trionfo fino alla Piazza del Duomo in poche centinaia di metri. Lungo il tragitto compaiono Palazzo De Rinaldis (ai civici 37–39), Palazzo Palmieri (42) con la facciata rococò che guarda la Piazzetta Falconieri, e Palazzo Marrese, famoso per le cariatidi che reggono il portale. Più avanti si apre il Teatro Paisiello (83), una sala raccolta dove il Settecento sembra ancora in prova. Sono edifici nobili, certo, ma vissuti: quando i portoni restano aperti, dietro c’è spesso una corte condivisa, con il pozzo come centro pratico e simbolico. È la tipologia della casa a corte che ha segnato per secoli il modo di abitare salentino: più nuclei intorno a uno spazio comune, acqua a portata di mano, ombra garantita.

Pietra, pozzi e corti: cosa osservare
La pietra leccese è una calcarenite chiara, docile da scolpire quando è fresca e resistente quando si ossida all’aria. Ha permesso non solo facciate teatrali, ma anche arredi minuti da cortile: vere semplici con modanature pulite, colonnine tornite, piccoli capitelli, staffe in ferro che sorreggono le carrucole. Nei cortili meglio conservati la pavimentazione a chianche porta ancora i segni del passaggio delle carriole; lungo i muri, nicchie di servizio, sedili in pietra, vasche basse per lavare. L’insieme parla di un’architettura domestica misurata, dove bellezza e funzione convivono senza fatica.
Un esempio esplicito del rapporto tra cortile, acqua e decoro è nel chiostro del Palazzo del Seminario, in Piazza del Duomo: il pozzo barocco “a baldacchino” progettato da Giuseppe Cino nel 1709 è un compendio di tralci, foglie d’acanto e figure leggere, scolpito nella stessa pietra di case e chiese. Più severo, ma eloquente, il cortile del Castello Carlo V, dove documenti ricordano pozzo e pavimentazioni già nel Quattrocento. Due esiti diversi della stessa necessità: raccogliere acqua, farne centro della vita comune, dare un segno alla pietra.

Itinerario breve: trecento metri pieni
Parti da Porta Napoli e imbocca via Palmieri. Subito le facciate si allineano come quinte. All’altezza di Palazzo De Rinaldis basta sporgere lo sguardo nell’androne per intuire il cortile. Pochi passi e arrivi a Palazzo Palmieri: il prospetto su strada è sobrio, ma la Piazzetta Falconieri rivela l’altra faccia, rococò e ariosa. Nella stessa piazzetta s’affaccia Palazzo Marrese con le sue cariatidi: il portale gioca di luce e ombra per tutta la giornata. Continuando, al civico 83, il Teatro Paisiello racconta un Settecento cittadino, più raccolto che cerimoniale. In parallelo a questi landmark, tieni l’abitudine di rallentare: ogni portone socchiuso può diventare un invito visivo a una corte; ogni corte custodisce spesso una vera di pozzo, magari senza ornamenti, ma con una dignità che non passa.

Visitare con tatto
Gran parte delle corti interne sono spazi privati o condominiali. Capita di intravederle perché i portoni restano aperti nelle ore diurne; l’accesso, quando possibile, va sempre chiesto con gentilezza. Nessuna foto a persone o proprietà senza consenso, voce bassa, passo leggero. Per osservare un pozzo monumentale senza incertezze, scegli il chiostro del Palazzo del Seminario e controlla gli orari del Museo Diocesano. Le ore migliori per la via sono due: la mattina, quando la pietra leccese vira all’oro e i profili si fanno netti; il tardo pomeriggio, quando il corridoio della strada incornicia la Piazza del Duomo e il campanile taglia il cielo.



Perché queste corti parlano ancora
Entrare in una corte è toccare con mano la scala reale della città: non quella dei grandi prospetti, ma quella della vita di tutti i giorni. La condivisione dello spazio, la prossimità delle case, il pozzo al centro come abitudine e necessità: tutto racconta un modo di stare insieme che ha fatto epoca e che, in parte, sopravvive. Molte corti sono state restaurate con cura; altre mantengono la patina che il clima e l’uso lasciano in eredità. Nessuna posa: solo pietra, ombra, acqua, relazioni di vicinato. È questa continuità silenziosa che rende via Palmieri più di un bell’esercizio di stile.
Una chiusura, a passo d’uomo
Ritorna quando la luce si abbassa. Cammina senza fretta, tocca con le dita la pietra leccese che al tramonto si scalda di miele, ascolta il ronzio delle voci dalle cucine, l’acqua che scende da un lavatoio, una sedia spostata sotto un arco. Magari un portone sarà di nuovo accostato: dietro, una corte piccola, un pozzo con il bordo liscio, un vaso di basilico. Basta quello per portarsi Lecce addosso per il resto della giornata.






