La Corte di Assise di Appello di Napoli ha emesso una sentenza di secondo grado sull’omicidio di Giulio Giaccio, il giovane di 26 anni assassinato il 30 luglio 2000 e sciolto nell’acido a seguito di uno scambio di persona. Nonostante la gravità del delitto, l’aggravante mafiosa non è stata riconosciuta dai giudici, che hanno inflitto pene poco severe agli imputati
La sentenza di secondo grado: condanne ma senza aggravante mafiosa
La Corte ha condannato Salvatore Cammarota a 16 anni di carcere, con una riduzione della pena dovuta all’attenuante equivalente riconosciuta in relazione a un’offerta di risarcimento fatta alla famiglia della vittima. La pena per Carlo Nappi è stata confermata a 30 anni, mentre Roberto Perrone ha visto la sua condanna ridotta a 8 anni per il riconoscimento del concorso anomalo nel reato.
In primo grado, Cammarota e Nappi erano stati condannati a 30 anni ciascuno, mentre Perrone, collaboratore di giustizia, aveva ricevuto una pena di 14 anni. Durante il processo, Cammarota ha tentato due volte di risarcire la famiglia Giaccio, offrendo una casa e successivamente un’offerta economica di circa 200mila euro, entrambe rifiutate.
Il contesto del delitto e le dinamiche dell’omicidio
Giulio Giaccio fu ucciso perché scambiato per un altro uomo, ritenuto colpevole di intrattenere una relazione sentimentale con la sorella di un affiliato al clan Polverino, gruppo camorristico operante nell’area di Marano di Napoli e dintorni. Il giovane, un operaio senza legami con la criminalità organizzata, fu sequestrato da malviventi travestiti da agenti di polizia e ucciso con un colpo alla nuca durante il tragitto in auto. Il corpo venne poi sciolto nell’acido.
Le indagini, riaperte nel 2015 grazie alle rivelazioni di collaboratori di giustizia, hanno identificato gli esecutori materiali e i mandanti del delitto, tra cui Salvatore Cammarota, figura di spicco del clan Polverino, che si oppose alla relazione della sorella con l’uomo ritenuto responsabile.
Gli inquirenti hanno confermato che il movente fu di natura personale e familiare, legato alla volontà di punire chi aveva “offeso” il capo clan, ma la Corte ha escluso l’aggravante mafiosa, distinguendo il delitto da una vera e propria azione di camorra.
Questa sentenza rappresenta un momento importante nel lungo iter giudiziario che ha coinvolto il clan Polverino, già sotto indagine per numerosi altri crimini, e apre nuovi spazi di dibattito sulla definizione giuridica dei delitti riconducibili alla criminalità organizzata nel territorio campano.






