Nel cuore di Taranto, tra il mare e i palazzi grigi del quartiere Tamburi, l’acciaieria nota per molti anni come Ilva ha inciso la vita di una città intera. La sua storia inizia il 9 luglio 1960 con la posa della prima pietra della più grande acciaieria d’Europa. Nel 1961 viene avviato il Tubificio, il 24 ottobre 1964 il primo altoforno entra in funzione e, il 10 aprile 1965, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inaugura ufficialmente l’impianto. Era l’Italsider, simbolo dello Stato e del sogno industriale del Sud Italia: un progetto pensato per stimolare l’economia, creare lavoro e dare respiro a una regione segnata da povertà e ricostruzione post-bellica.
Dall’Italsider all’Ilva
Negli anni successivi, l’Italia prova a far convivere industrializzazione e sviluppo sociale. L’Italsider, che nel 1989 diventa Ilva, integra altre realtà siderurgiche nazionali, consolidando un ruolo centrale nella produzione di acciaio. La privatizzazione arriva nel 1995: il gruppo Riva acquista lo stabilimento, e l’acciaieria vive anni di grande produzione. Ma contemporaneamente emergono le prime crepe, soprattutto sul fronte ambientale. Il caso della Palazzina Laf, considerato il primo caso di mobbing in Italia, e le crescenti segnalazioni di inquinamento iniziano a costruire un quadro critico che trascende il semplice lavoro.
L’inchiesta “Ambiente Svenduto”
Il 2012 segna una svolta drammatica. L’inchiesta “Ambiente Svenduto” porta al sequestro degli impianti dell’area a caldo e alla custodia cautelare di alcuni vertici. Il decreto “Salva Ilva” del 3 dicembre dello stesso anno permette la prosecuzione della produzione, ma la tensione tra sicurezza dei lavoratori e necessità produttive è palpabile. L’anno successivo, nel 2013, il gip di Taranto dispone un maxi-sequestro da 8 miliardi di euro sui beni del gruppo Riva, poi annullato dalla Corte di Cassazione. Il governo Letta istituisce la gestione commissariale affidando la guida a Enrico Bondi e a Edo Ronchi.

Tra il 2014 e il 2015 si susseguono commissari, piani ambientali e decreti. Il Dpcm del 2014 approva il primo Piano ambientale, mentre Piero Gnudi e Corrado Carrubba subentrano rispettivamente a Bondi e Ronchi. Nel gennaio 2015, con l’amministrazione straordinaria, i commissari diventano tre, e a loro si aggiunge Enrico Laghi. La produzione deve continuare, ma la città osserva sempre più preoccupata le emissioni, i rischi ambientali e le conseguenze sulla salute dei cittadini.
Verso la privatizzazione dell’Ilva
Il processo verso la privatizzazione accelera nel 2016. La ministra dello Sviluppo Economico Federica Guidi avvia l’iter per assegnare lo stabilimento ai privati. Due cordate restano in gara: Am Investco, composta da ArcelorMittal e il gruppo Marcegaglia, e Acciaitalia, con Cdp, Arvedi e Delfin. Nel 2017, la cordata italiana si arricchisce dell’ingresso del colosso indiano Jindal, ma alla fine i commissari propongono Am Investco. Il decreto di assegnazione ad ArcelorMittal viene firmato dal ministro Calenda, ma l’intesa con i sindacati arriva solo nel 2018, sotto Luigi Di Maio. Le assunzioni partono l’1 novembre, con la speranza di una nuova fase di rilancio industriale.
L’anno successivo, il governo cancella lo scudo penale introdotto per tutelare i vertici della nuova gestione. ArcelorMittal deposita un atto per recedere dal contratto di affitto e acquisto, aprendo una causa legale che accende i riflettori sulla fragilità della gestione privata. Nel marzo 2020 si firma un accordo tra i commissari e la multinazionale per verificare le condizioni di una nuova intesa, e a dicembre ArcelorMittal e Invitalia, agenzia controllata dallo Stato, sanciscono il ritorno dello Stato all’interno dell’Ilva con una quota di minoranza.
Gli ultimi anni
Nel 2021, Invitalia entra ufficialmente nel capitale sociale con il 38% delle quote, mentre ArcelorMittal mantiene il 62%. Il gruppo assume il nome di Acciaierie d’Italia. Ma i problemi non sono finiti: nel 2022 viene concordato lo slittamento al 2024 della salita dello Stato al 60% della società. Nel frattempo, la produzione resta inferiore alle attese, e ArcelorMittal e Invitalia non trovano un accordo né sulla ricapitalizzazione né sull’acquisizione degli impianti. Lo scontro tra pubblico e privato si intensifica, e le difficoltà includono anche il pagamento dell’indotto e la gestione dei fornitori.
Nel 2024, Invitalia chiede l’amministrazione straordinaria, aprendo la possibilità di un commissariamento dell’impresa alla ricerca di nuovi investitori. ArcelorMittal tenta un concordato in bianco per risolvere i debiti, ma il tribunale di Milano rigetta l’istanza, chiarendo che il tempo per negoziare è ormai finito. La situazione appare immobilizzata: da un lato lo Stato vorrebbe rilevare la maggioranza, dall’altro la multinazionale non intende più investire, e nessun investitore privato sembra disposto a entrare.
L’Ilva e l’inquinamento
Oltre alla complessità economica e gestionale, la storia dell’Ilva è segnata dalle conseguenze ambientali. Già dai primi anni Duemila, a livello europeo si comincia a discutere di sviluppo sostenibile e norme anti-inquinamento. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea condanna l’Italia nel 2011 per non aver garantito le autorizzazioni integrate ambientali (AIA) e per non aver censito gli impianti a rischio. Nel 2012, il commissariamento permette la prosecuzione dell’attività, ma le proteste dei cittadini si intensificano. Intercettazioni e inchieste rivelano tentativi di controllare l’informazione sull’inquinamento, con tangenti e pressioni sui media. La Commissione europea documenta emissioni nocive nell’aria, nel suolo e nell’acqua, soprattutto nel quartiere Tamburi.

Il processo “Ambiente Svenduto”, iniziato nel 2015, approfondisce la responsabilità dell’Ilva e delle autorità italiane. Cinquanta indagati, tra cui Nicola Vendola, sono accusati di disastro ambientale, avvelenamento e associazione a delinquere. Alcuni cittadini di Taranto si rivolgono alla Corte di Strasburgo, denunciando crimini contro l’umanità: malattie cardiovascolari, respiratorie e neoplasie derivano dalle emissioni industriali. La vicenda evidenzia l’incapacità dello Stato di tutelare la popolazione e regolarizzare l’attività industriale.
Il Piano Ilva del 2017 prova a correggere gli errori, con decarbonizzazione, risarcimenti e monitoraggio ambientale, ma il TAR di Lecce contesta le cifre previste per i danni sanitari, giudicando insufficienti le misure. I lavoratori si trovano davanti a un bivio: continuare a lavorare rischiando la salute o rimanere disoccupati. Oggi, circa 8.160 dipendenti vivono questa precarietà, simbolo di una frattura sociale e lavorativa profonda.
Tra crisi energetica e costi difficili da sostenere
Negli ultimi anni, Acciaierie d’Italia ha ridotto o spento impianti, rallentata dalla crisi energetica del 2022 e dai costi di gestione. Il governo tenta di trovare un nuovo equilibrio: prestiti pubblici, negoziazioni con ArcelorMittal e possibili amministrazioni straordinarie diventano strumenti per salvare produzione e posti di lavoro. Tuttavia, la mancanza di investitori privati e la fragilità dell’impianto rendono ogni intervento incerto.
Oggi, l’ex Ilva è un gigante che fatica a camminare. Il ritorno dello Stato nel capitale sociale e la continua ricerca di soluzioni testimoniano la difficoltà di coniugare sviluppo economico, sicurezza ambientale e tutela dei lavoratori. La storia si ripete: ogni tentativo di rilancio si scontra con problemi strutturali, mancanze gestionali e tensioni tra pubblico e privato. Taranto osserva, preoccupata, i suoi altiforni e i fumi che li circondano, consapevole che la sfida per il futuro dell’acciaio e della salute della città non è ancora finita.






